di Domenico Bilotti
Cosa rende “Moby Dick”, il celebre romanzo di Herman Melville, esattamente a centosettant’anni dalla sua prima e allora fallimentare pubblicazione americana, una delle opere più legate all’immaginario giovanile, all’ansia di scoperta e alla rilettura critica dei propri inevitabili fallimenti personali? Melville creò una macchina narrativa di raro fascino: un viaggio per mare, a caccia di una balena, con un equipaggio di idealtipi dove si fa fatica a trovare un ruolo secondario, un misto sapiente di termini della navigazione, secche frasi del parlato all’americana, avventura e perdita, qualità della scrittura e sequenze descrittive vorticose.
Si intersecano tanti temi che prendono subito il lettore alla gola del cuore. C’è l’intenzionalità del movimento: Ismaele, dal nome del figlio di Abramo e della schiava Agar, è un viandante per destino e tuttavia per scelta, chi scappa dalle sorti imposte per costruirsene faticosamente una assai più dura e inquietante, e forse per questo molto più intima, personale, gratificante. C’è la condanna del senso di vendetta insoddisfatto: il vecchio capitano Achab si è trasformato in un asceta cieco, che concepisce spasmodicamente quanto resta della sua esistenza per la caccia alla balena (un capodoglio, in realtà). Quacchero intransigente, apparentemente riformatore e in realtà legato alla teologia del Vecchio Testamento, colpisce per la ieraticità della sua furiosa missione perdente. C’è il fascino del mondo lontano e del presente complesso e meticcio: sul Pequod, imbarcazione per vecchi lupi di mare, uomini di tutte le razze, di tutte le religioni, di tutti i misfatti e di tutte le virtù. Una sorta di gemello oscuro del capitano è un mistico asiatico, Fedallah, che coltiva in sé la fede medio-orientale e i racconti animistici e spiritualistici di mondi distanti, fatti di profezie, detti, proverbi, aneddoti, predizioni e magie. C’è lo schiavo Pip, che impazzisce dopo un lungo naufragio: la sua pazzia, così diversa dal furibondo morbo energico del capitano, ne è in realtà il perfettamente simmetrico. La pazzia che nasce da un’ingiustizia del caso o da quella che come ingiustizia si percepisce. C’è la prudenza dell’amicizia incarnata dall’ufficiale Starbuck che, in realtà, in punto di lotta, non si tira poi indietro a difesa dei valori di quella spedizione bandita dalla ragione e dal tempo. E c’è l’ebbrezza dell’amicizia spontanea che si instaura subito tra il normotipo Ismaele, così pronto a scomparire nelle pagine della sua narrazione che di sé dice solo d’aver le spalle larghe, e il gigantesco Queequeg, un mastodontico polinesiano che compie ogni genere di dinamico eroismo: eccoli lì, Sandokan e Yanez, o ancora di più Odisseo e Diomede. Non braccio e mente, ma parti della stessa lotta. Si è soliti dire che Melville attribuì l’iniziale fiasco del volume alla sua natura intrinsecamente “malvagia”, così si esprimeva. All’allegoria del conflitto tra il bene puritano incarnato dalla folle dedizione di Achab e l’ineffabile male che sorge da qualunque abisso per inghiottire chiunque. Eppure, ci sentiamo in parte di dissentire.
Quasi come Giordano Bruno secoli prima, gli eroici furori di cui è preda Melville hanno davvero una fortissima tensione etica, teologica, valoriale, metafisica, escatologica. Eppure, “Moby Dick” ci sembra anche e di più il compianto della avventurosa e spesso perdente ribellione giovanile, quella che si guarda con la gratitudine di ogni esperienza di formazione, con la malinconia di ogni sfida perduta, con la rabbia errabonda del tempo che passa e dell’ingiustizia che monta da dentro le viscere dell’anima prima che da quelle del mondo. Quell’indefinibile guerra che Achab introietta dentro di sé fino a farsene divorare e alla quale invece Ismaele oppone la resistenza, la sopravvivenza, persino la sorte e la rinuncia: ha dato alla balena bianca un pezzo della sua storia; è riuscito a evitare di darle la vita.