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Il primo mese del nuovo anno inizia con un governo che va a schiantandosi a colpi di hashtag in diretta social ed eredita da quello vecchio l’agonia di aperture e chiusure a singhiozzo sulla base di regioni dai colori caldini, più caldi o roventi; eredita dal vecchio anche la scomparsa dei grandi Statisti commentata da bravi e meno bravi giornalisti, la conta giornaliera delle vittime del virus e la conta invisibile di coloro che, non uccisi dalla pandemia, sopravvivono pregando di non morire di fame e di debiti.

È un esercito silenzioso la cui resistenza, ormai, non fa più notizia.
È un fronte costituito da gente normale, che lavora onestamente, lontano dai riflettori, le cui botteghe e i cui capannoni si affacciano sulle vie dei nostri paesi di provincia, solitamente ignorati dalle cronache se non a causa di qualche evento eccezionale. A loro vorremmo dar voce, perché le loro voci noi le sentiamo per strada: le loro difficoltà sono quelle delle nostre piccole comunità – sempre più spopolate e con sempre meno servizi – ma non per questo meno operose.

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Una voce unanime, quella degli esercenti “in chiaro”(coloro che lo scontrino lo emettono, n,d.r.) degli imprenditori dal marchio sconosciuto, degli artigiani che confezionano le nostre ringhiere, porte, cancellate e serrande … quelle che, coraggiosamente, restano ancora sollevate. La voce di coloro che mai vedremo scendere in piazza, che mai violeranno una norma in segno di protesta; che nessuno intervisterà mai perché non hanno abbastanza forza mediatica per esprimere il loro disagio.

Già arrancavano prima che scoppiasse della pandemia del secolo, ora si trovano ad annaspare poiché, nonostante qualche goccia dei bonus erogati a pioggia arrivi anche a loro, sono ben lungi dall’ottenere il vero ristoro: una riforma seria del sistema di contribuzione. Tra tutte le imposte dovute dai lavoratori del settore privato, è soprattutto una, infatti, a dover essere riveduta perché appesantisce davvero troppo l’intero carico fiscale: quella che impone loro di corrispondere in anticipo le tasse relative all’anno successivo. Doveroso e più che lecito pagare puntualmente le tasse in base al reddito dichiarato l’anno precedente, ma non c’è logica che spieghi come si possa calcolare su base scientifica un guadagno futuro.

Ci permettiamo di scomodare, a proposito di previsioni impossibili, Il celebre filosofo illuminista David Hume. Egli mise in discussione la possibilità di affermare, senza ombra di dubbio, quindi scientificamente, che il sole debba per forza sorgere tutti i giorni: umanamente ci si aspetta, per abitudine, che il sole sorga anche l’indomani, e l’indomani ancora, ma non è scontato per la scienza, in quanto potrebbe intervenire un cataclisma “cosmico” a impedirlo.

Lo stesso ragionamento è applicabile, anche in misura maggiore, alla questione del versamento anticipato di acconti vari in base un’effimera previsione: chi può conoscere con certezza l’entità delle nostre future entrate? E se gli affari andassero peggio dell’anno precedente? E se venissimo a mancare? E se fossimo costretti a chiudere bottega? (Ipotesi ancor più tremenda, perché anche per cessare un’attività bisogna pagare).

Ci siamo permesse di tirare in ballo la filosofia, ma è chiaro che questo non è un problema filosofico: per lo Stato è una questione di battere cassa con una certa regolarità; per i comuni esercenti è, al contrario, una spada di Damocle sul capo.

Ma, come scrive Alessandra Bommarito in “Uccisa a colpi di tasse” (Ed. Walter Farina, 2014): – Prima o poi non ci sarà più nulla da mungere, ci saranno poche imprese e lo Stato come farà ad onorare i suoi debiti e il dovuto ai suoi dipendenti? Se non c’è lavoro non ci sono tasse. Se le tasse sono esose, muore il lavoro. Ci saranno sempre meno imprenditori e lavoratori autonomi e lo Stato non potrà più sostentare il suo apparato di dipendenti pubblici, magistrati, vigili, polizia e così via.

Condividiamo il pensiero di Alessandra e invitiamo tutti a riflettere.

Grazie per averci ascoltato.

Giovanna, Daniela, Lourdes,

cittadine.

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