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CARO POETA SOMMO,

il ‘caro’ è amore al tuo Poema eccelso sin dal tempo del primo incontro, grembiule nero e colletto bianco, scolastica divisa delle passate generazioni a coprire l’abito firmato e di fattura semplice, apparente eguaglianza scomparsa anch’essa poi nell’osanna alla eguaglianza.                                                                                                                          Del tuo Amore ci esaltavamo, del tuo ”io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna”, con te della corruzione ci sdegnavamo e dei traviamenti, sentivamo dolore pel tuo dolore, e comprendevamo la tua passione di verità e giustizia, la ricchezza della tua vita interiore trasformata in altissima poesia, quella poetica rappresentazione dell’umanità, caleidoscopio dove il nero predomina e il grigio. Comprendevamo quel “Sommo Poeta” a te dovuto.                                                                                             Siamo quest’anno al settimo centenario del tuo volo alle ignote plaghe e, se quaggiù si volge lo spirito tuo, non può che rattristarsi: esseri umani di prava natura ancora, anzi più pronti a sacrificare i simili per successo e potere, denaro e sesso, per pericolose sostanze appellate droghe, al tuo tempo sconosciute, nel nostro diffuse.                                                                                                                 Indifferente poi al “redde rationem” di qualsivoglia specie, ha la “ratio” annullato, senza scialuppa vaga nel grande mare del caos, e in groppa sta Techne, verso orizzonti smisurati lo sferza.                                                                                                            No, non puoi rattristarti, “sciolto” sei dalla “insensata cura dei mortali”, dal terreno, puoi forse solo commiserare noi posteri che sempre più il caos amiamo, mentre ci illudiamo di programmare un’armonia che tale non è. Scriteriato ordine mondiale inquietante che annullata vuole la differenziazione nelle idee politiche, economiche e sociali, tra le culture anche, di quanto esse hanno nei secoli prodotto.                                                         Forze economiche (le hai viste anche tu al tuo tempo trasformarsi), del capitale internazionale soprattutto, hanno attuato la trasposizione in termini ideologici dei loro interessi, impongono il “pensiero unico” per realizzare –dicono- giustizia ed eguaglianza. Si rivela, invece, sudditanza delle menti non più divergenti, al pari di ogni sistema di vita omologate.                                                                                   Così anche tu, Poeta Sommo, in ogni precedente secolo celebrato nel mondo, sei per quel pensiero condannato: “antisemita” –ti dicono- “islamofobo” per certi tuoi versi e raffigurazioni, un “diseducativo” da non programmare, da lasciare alla polvere.                                    Asserzioni di intellettualoidi acritici che sul tanto di effettivamente condannabile non si soffermano, anzi il modo trovano per giustificare, attaccano invece te, senza avere di te e del tuo tempo profonda conoscenza.                                                                                                  Molto fragile l’Occidente, l’Europa, l’Italia, e in questi anni poi un terribile virus                                                                                                                       agita l’intero globo, sconvolge ogni cosa lasciando anche ancor più spazio a imbrogli e concussioni.                                                                                                                Forse una puntura di zanzara, a quanto riferiscono le cronache del tuo tempo, portò te al punto estremo, ed eri ancora giovane, cinquantasei anni appena, non molti per noi che la vita abbiamo allungato, e in questo sì, siamo andati avanti. Ora, però, ci è capitato il veleno invisibile, è micidiale, tantissime vite nel globo annienta, e inoltre la peste non è scomparsa e tanti altri mali abbiamo che la scienza tenta di sconfiggere.                                                                                                                  Da decenni poi noi italiani stiamo perdendo, nella indifferenza quasi totale, pure la preziosità della nostra lingua di eccezionale ricchezza e varietà con cui può attuarsi la meravigliosa commistione di stili e di registri. Stiamo perdendo la lingua che tu hai inventato, quella per la quale Erich Auerbach, un germanico della tua Divina Commedia appassionato studioso, diceva che avevi “scoperto il mondo”.                                                                                                     Di altra lingua gl’italiani tutti menano ora vanto, politici scienziati ed economisti, comuni cittadini e letterati e addetti alla informazione. Questa, in linea di massima, è blaterazione che tu, portato alla essenzialità/profondità non tollereresti, e si attua attraverso i cosiddetti “media”, oppure i “social” (termini della lingua che è prevalsa), frutto positivo della tecnica, se non producono danno.                                                       Ma va, purtroppo, impoverendosi la lingua da te creata, quella con cui hai nella Commedia dato potenza espressiva alla profondità ed essenzialità del tuo pensiero. Con essa inoltre ci hai reso nazione, pur nella nostra disunione, e nei successivi secoli altri illustri hanno lasciato il loro segno.                                                                                                                                          La scarsa considerazione di te, la condanna delle ristrette menti resta contro di esse, anche se, purtroppo, pure contro “il giardino d’Europa” e i suoi figli indegni, la cui lingua è radiata nei consessi internazionali.                                                                               Ma tu non lasciarti sfiorare, ripeti il tuo “non ti curar di loro” sia per questo, sia per la condanna frutto del “pensiero unico”, sappi che oggi ancor di più “… un Marcel diventa/ ogni villan che parteggiando viene”.                                                                                                     Già tante condanne quaggiù hai patito, l’esilio per l’ingiusta accusa di baratteria: “Igne comburatur sic quod moriatur”, venne sentenziato. E andasti “fuori del dolce seno” dell’amata Firenze “quasi mendicando… sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade”, e a tal punto ti umiliasti da dire in una epistola, come tu sai non divulgata dalla Cancelleria fioentina a te ostile, quel “Popule mee, quid feci tibi?”.                                                                                             Tu, non colpevole di baratteria, fosti condannato per una colpa presente al tuo tempo in altri, lo è, la concussione, ancor di più nella nostra contemporaneità, e non solo in Italia.                                                                                                                                     Con Dike in esilio il mondo è stravolto, eppure può prendere altro corso (siamo noi il mondo), se ripulito da ignoranza, avidità e crudeltà. Potrà tornare l’amore per la nostra lingua, per il tuo Poema, espressione massima della Poesia.                                                                         “Spes ultima dea”, ben sai tu che cantasti: “…con altra voce omai, con altro vello/ritornerò poeta, e sul fonte/ del mio battesmo prenderò il cappello…”.            Non successe allora, si ripensò poi, ripenseranno…                                                                E’certezza che anche oggi in ogni parte del globo ci sono giovani che ti amano.

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Antonietta Benagiano

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