di Enrico Cisnetto
Ed eccolo, il governo Draghi. Lo so, avreste voluto di più. Temete che sia ricicciato fuori il manuale Cencelli, mentre ambivate ad essere stupiti con una lista più corta e con molti più nomi spiazzanti per aprire d’incanto una nuova era. Pure io, se è per questo. E, credo, anche lo stesso Draghi avrebbe preferito meno ministeri e avrebbe fatto volentieri a meno di molti dei 15 politici che, con attento dosaggio a seconda del peso della rappresentanza parlamentare, fanno riferimento ai 6 partiti che compongono la super maggioranza che sorregge il suo esecutivo. Ma questo non è, né poteva essere, un governo del presidente. Se inteso non per la caratura e il carisma del presidente del Consiglio, che sono indiscutibili, ma come un esecutivo tecnico disinteressato agli equilibri politico-parlamentari. Prima di tutto perchè, se lo fosse, sarebbe stato facilmente attaccabile da chi voleva le elezioni e reclama – non senza ragione – che in una democrazia rappresentativa è opportuno che esista sempre una relazione diretta tra il Parlamento e l’Esecutivo. E siccome la stragrande maggioranza di coloro che sono attestati su queste posizioni non sono sentinelle della Costituzione ma populisti travestiti, è bene non dar loro munizioni. In secondo luogo, maggioranza larghissima e per questo priva di coloritura politica – in altre parole, destinata a dissolversi alle prossime elezioni nazionali e a non riprodursi in quelle amministrative imminenti – non poteva significare la mortificazione dei partiti, pena il rischio che questo assetto formalmente forte ma sostanzialmente fragile potesse andare in frantumi nel giro di breve tempo (l’embrassons nous intorno al governo Monti durò pochi mesi…). Che poi il livello del ceto dirigente dei partiti sia quello mortificante che abbiamo sotto gli occhi, non è certo colpa di Draghi e cosa a cui egli potesse porre rimedio. In tutti i casi, non va sottovalutato il fatto che la vastissima base parlamentare che sorreggerà il governo dovrebbe metterlo al riparo da agguati e ricatti, e tagliare le gambe al trasformismo dilagante che nel tentativo di dar vita al Conte ter ha dato il meglio di sè.
Infine, c’è un’ultima, decisiva, ragione che spiega l’atteggiamento prudente usato da Draghi nel dosaggio per la formazione del suo governo: tra un anno questo Parlamento dovrà scegliere il successore di Mattarella, e sarà a tutti i costi necessario preservare la possibilità che la scelta cada su un uomo all’altezza di un ruolo che proprio questa legislatura ha dimostrato di essere decisivo ben più di quanto non lo dica la carta suprema. Far digerire oggi un governo completamente slegato dalle forze parlamentari avrebbe potuto significare trovarsi domani un signor nessuno, o anche peggio, al Quirinale. Se poi sarà lo stesso Draghi, seguendo lo schema Ciampi, a salire al Colle, o sarà un altro, è ragionevole pensare (e sperare) che quella carica sarà preservata non solo dall’incompetenza e dal radicalismo populista, ma anche dal più temibile, perchè camuffabile, grigiore di un mediocre. Forse si doveva interrompere la legislatura una volta approvata la (sciagurata) riduzione del numero dei parlamentari, visto che non poche ragioni militano a favore della tesi di chi sosteneva l’opportunità politica (anche se non quella strettamente costituzionale) di non far eleggere il prossimo Capo dello Stato da un Parlamento in qualche misura “delegittimato” da quel provvedimento autoriduttivo. Ma così non è stato, e dunque è con questo Parlamento – e non uno di fantasia, magari proiezione di sondaggi che non valgono nulla – che occorre fare i conti.
Insomma, è vero, le aspettative erano per qualcosa di diverso, e sono molti i lettori di questa newsletter che si sono affrettati a manifestarmi a caldo, dopo la lettura dei nomi dei ministri, un certo amaro in bocca. Tuttavia, voglio proporre costoro, a tutti voi e a me stesso le seguenti riflessioni. Primo: alzi la mano chi non si sente soddisfatto, o quantomeno rassicurato, dal fatto che il governo ora sia guidato dall’italiano più autorevole ed accreditato di cui il Paese dispone. Perchè parliamoci chiaro: questo esecutivo sarà soprattutto Draghi, e quel gruppo di tecnici affidabili che lui ha voluto intorno a sé. In Europa, cioè laddove si decidono le nostre sorti, e a Washington, laddove si dovrà ricostruire la trama dell’alleanza atlantica cui Draghi ha fatto esplicito riferimento nel corso delle consultazioni di questi giorni, ci sarà un solo interlocutore. Non a caso tra i dicasteri aboliti c’è quello degli affari europei: con Draghi a palazzo Chigi non serve.
Secondo: converrete che non è di poco conto sapere che d’ora in avanti la lotta contro la pandemia, la predisposizione del piano per il Recovery e delle misure per uscire dalla recessione agganciare il treno della ripresa, così come la realizzazione delle riforme strutturali che ci vengono richieste per poter disporre delle risorse europee, sono nelle mani di Draghi, di certo dotato di maggiore capacità ed esperienza (anche politica) di chi l’ha preceduto. Qualunque sia il giudizio che si voglia esprimere sull’avvocato Conte spuntato dal nulla e nel nulla destinato a sparire, la differenza tra costui e chi nella vita è stato direttore esecutivo per l’Italia della Banca Mondiale, direttore generale del Tesoro, governatore della Banca d’Italia e presidente della Bce (Draghi non bisogno di taroccare il suo CV), è talmente abissale che solo chi crede che la giusta scala del merito sia quella rovesciata, dove i mediocri stanno in cima e i migliori stanno in fondo, può dirsi defraudato dal cambio.
Terzo: la chiamata di Draghi è figlia del fallimento di questo sistema politico e delle forze che lo animano, il che può consentire di archiviare sia la stagione del populismo e del sovranismo, sia l’idea che un sistema sano possa fare a meno dei partiti (mi riferisco a quelli veri, non ai surrogati di cui ci siamo accontentati nell’ultimo quarto di secolo). Ora si sta voltando pagina, e anche se il nuovo foglio è ancora bianco, non può non essere considerato un passo avanti l’aver archiviato il vecchio.
Insomma, c’è di che essere ragionevolmente compiaciuti. E di questo vanno ringraziati, nell’ordine: il presidente Mattarella per aver gestito questo passaggio senza forzature ma con fermezza, la cancelliera Merkel per essersi adoperata con un Draghi che è stato a lungo riluttante a prendere anche solo in considerazione l’assunzione di questo impegno, e Renzi per aver badato, pur a suo modo e con un certo grado di inconsapevolezza del punto di caduta del suo agire, a cucinare la precondizione – far fuori Conte – indispensabile a voltar pagina. Oltre naturalmente allo stesso presidente del Consiglio – ormai è tale – che francamente avrebbe potuto optare per qualche prestigioso e meno stressante incarico internazionale.
Viceversa, tutti noi dobbiamo evitare l’errore di credere che una volta sostituito Conte con Draghi i nostri problemi saranno magicamente risolti. Intanto perchè se abbiamo visto che pure SuperMario è costretto a partire con un po’ di freno a mano tirato è perchè in questi anni ci siamo accontentati di quel che il convento politico ci passava, fino al peggiore di tutti i risultati elettorali della storia repubblica, quello del 2018 che ha riempito Camera e Senato di dilettanti e scappati di casa. Poi perchè da Draghi dobbiamo cavare non solo un intervento congiunturale sulle questioni più assillanti, ma anche l’avvio di una svolta strutturale, che consenta di ridisegnare in modo radicalmente diverso il sistema politico e l’architettura istituzionale, cosa senza la quale tra qualche tempo saremo punto e a capo. E perchè ciò accada, l’ho detto mille volte e lo ripeto, occorre che la parte del sana del Paese, quella produttiva e non assistita che dal cambiamento ha tutto da guadagnare, trovi il modo di unirsi e di selezionare una nuova classe dirigente. Il “mondo del pil” ha certamente il compito di pigiare il pedale dello sviluppo, ponendo mano agli investimenti e scommettendo sull’innovazione, ma deve anche sapersi assumere il compito di dar vita al “partito del pil”, capendo che il miglior modo di tutelare gli interessi specifici è quello di assumere come bussola l’interesse generale. C’è da rifondare l’Italia da capo a piedi, e non esiste alcun uomo salvifico che lo possa fare da solo, così come non è pensabile affidarsi alla protesta qualunquista immaginando di poter fare a meno di una classe dirigente selezionata sulla base del merito, delle competenze e della visione strategica. Non si tratta di farsi conquistare dalla facile fantasia di un “partito di Draghi”, che non esiste e non esisterà, ma di sfruttare il ravvivarsi del fuoco della speranza che indubbiamente l’avvento di Draghi ha già prodotto e potrà produrre, per creare un nuovo spirito (ri)costituente e gli strumenti per animarlo. Cosa più difficile, ma ben più utile, che affidarsi (nuovamente) all’uomo solo al comando. Che poi, come abbiamo appena visto, proprio solo non è.