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di Domenico Bilotti

Il discorso sulla base del quale Mario Draghi ha ottenuto la fiducia al Senato contiene degli spunti interessanti; se si vogliono trovare fuori luogo gli elogi sperticati (e lo sono non poco sempre), negarsi che emergano alcuni profili che potrebbero connotare l’azione dell’esecutivo sarebbe paralizzante. Quel discorso, piaccia o non piaccia, contiene già un canovaccio d’azione. E da economista sembra chiaro che Draghi, almeno nel brevissimo periodo, tenterà di fare politiche di espansione e non di ulteriore contenimento e riduzione: quelle, se serviranno, non mancheranno; la cultura maggioritaria del governo non è ostile al taglio di spesa pubblica, lo si sa. Nell’immediato, i leitmotiv suonano parzialmente diversi, ivi compresi gli accenti sulla coesione sociale, sull’unità e sui vincoli di solidarietà collettiva. Sono intendimenti, appunti, titoli, parole per tirare a campare? Questo ce lo dirà il tempo, come sarà il tempo a spiegare per bene se l’invocata continuità con l’apprezzato (almeno nel discorso) governo precedente sarà un omaggio formale per far tutt’altro o l’individuazione seria e sincera di quali cose continuare e quali invece archiviare subito doverosamente.

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Sono piaciuti i riferimenti al quadro pandemico, indecifrabile ma avvertito nell’opinione pubblica e fonte di fratture inesauste in tutti i partiti di maggioranza e d’opposizione, e gli spunti sul Mediterraneo (non solo europeo) come futuro veicolo di negoziati multilaterali e di relazioni stabili.

Che convinca o meno, però, quel discorso salutato come toccante e di alcuni passaggi salienti e apprezzabili contiene agli occhi e alle orecchie di chi s’occupa lavorativamente di certe questioni almeno alcune lacune. Non ci sono riferimenti a due istanze irrisolte nella politica legislativa italiana dell’ultimo ventennio: le potenzialità dell’intercultura e del dialogo interculturale e le più recenti espressioni applicative della libertà di pensiero, coscienza e religione – intangibili a norma del dettato costituzionale, ma costantemente sottoposte a nuovi e più gravi stress-tests. Dal terrorismo alla questione sicurezza, dal populismo alle migrazioni, dai diritti civili all’adeguamento alle giurisdizioni internazionali di tutela dei diritti umani.

E queste istanze sarà opportuno continuare a tenere d’occhio, anche perché sono compatibili con le intenzioni di recupero e rivitalizzazione e che tutte le forze politiche indicano come decisive, e non tutte percorrono concretamente.

Può l’approccio giuridico interculturale far del bene alle necessità della coesione sociale, della comunanza e della condivisione che il Presidente del Consiglio ha opportunamente individuato come fondamentali per uscire dall’empasse? In che forme, con che limiti e con quali strumenti, l’associazionismo del terzo settore culturalmente orientato può giovare al miglioramento delle condizioni di vita negli ambiti critici e nodali della recente attualità: riapertura ragionata delle attività di contatto, diffusione di una profilassi di massa, salvaguardia ambientale e medico-sanitaria?

Quanto al tema dei diritti civili e, collateralmente ma fino a un certo punto, alla questione giustizia, è evidente che l’espansione dei primi e un ridimensionamento equitativo del contenzioso, delle sue farraginosità e involute asperità, sarebbero utili. Da tempo l’esperienza pratica e gli studiosi di più varia marca ideologica ce ne suggeriscono i potenziali effetti socioeconomici e giuridico-culturali. Ci sarà voglia di cogliere finalmente questa sfida o si preferirà far allontanare ulteriormente il treno?

Non è mistero che nella fase presente riflettere sulle opportunità di una gestione paritetica e dialogica dei conflitti e su una nuova stagione di cooperazione non sia una sciarada intellettualistica, ma l’approdo temperato verso il quale stanno virando gli Stati che sin qui han retto meglio alla doppia onda d’urto pandemico-finanziaria.

Di quel che non si parla oggi, si dovrà parlar poi, sperando non sia tardi.

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