SE DRAGHI VUOLE USCIRE DAL PANTANO DELLA PANDEMIA DEVE COMMISSARIARE LE REGIONI E IMPOSTARE LE RIFORME DELLA SANITÀ E DELLE AUTONOMIE
Il barometro Draghi segna “bassa pressione”. A determinarla non è tanto l’influenza negativa che le fibrillazioni dentro i partiti possono produrre al governo, quanto la crescente percezione del presidente del Consiglio – che di questa cosa soffre sul piano piscofisico più di quanto non avesse neanche lontanamente immaginato al momento in cui ha ceduto alle pressioni che lo hanno portato a palazzo Chigi – che è maledettamente complicato innescare, molto più di quanto avesse preventivato, quei cambiamenti che da lui ci si attendono e che egli stesso si era prefisso di poter suscitare in tempi brevi. Naturalmente sono mille i fronti aperti, ma il tema più sensibile era e resta la lotta alla pandemia attraverso il piano vaccinale, condizione senza la quale nessun’altra questione aperta, a cominciare da quella della ripresa economica da mettere in moto attraverso gli investimenti finanziati dalle risorse europee, può trovare soluzione. E agli occhi di Draghi appare ogni giorno più chiaro che rischia di essere illusorio poter disgiungere il successo della vaccinazione di massa in tempi rapidi dalla contemporanea aggressione di alcuni nodi di fondo che strozzano il piano e rendono apprezzabili ma velleitari gli sforzi organizzativi realizzati con l’ingresso in campo dell’Esercito e della Protezione Civile, dal lato della logistica, e delle Poste, da quello dell’informatizzazione del processo.
Finora Draghi pensava più o meno questo: il piano dei vaccini è una cosa, la riforma sanitaria un’altra; quanto alla tensione nei rapporti tra le Regioni e lo Stato centrale, è risolvibile con un aumento del tasso di decisionismo dell’esecutivo derivante dalla mia personale autorevolezza. Il resto sono cose che verranno dopo. Ora è costretto a rendersi conto che le cose stanno diversamente. Come in un crescendo rossiniano, ad allarmare Draghi sono il disastro nella gestione dell’emergenza sanitaria in Lombardia, specie a danno dei più anziani (ma anche la Toscana non scherza) e la diaspora dei venti Servizi Sanitari Regionali – ciascuno sempre più Repubblica a sé stante tanto da aver creato una tale confusione nei criteri di formazione delle liste di priorità alla vaccinazione che non poteva non generare insopportabili abusi e odiose prevaricazioni – e il conflitto permanente tra essi e quel che resta del Servizio Sanitario Nazionale. Inoltre, lo ha lasciato basito la completa afasia che impedisce all’anagrafe civile e a quella sanitaria, così come a qualunque altra banca dati contenenti gli elementi per la valutazione delle condizioni di ciascun italiano al cospetto della pandemia e delle vaccinazioni di massa che devono essere fatte, di parlarsi tra loro in modo da programmare prima e realizzare poi la vaccinazione, e possibilmente tenere monitorata la reazione suscitata in ogni individuo per determinare le successive necessità. Tutte spie rosse di una situazione che ogni giorno di più gli fa temere che non sarà sufficiente conseguire un successo sul fronte dell’acquisizione massiccia di dosi di vaccino – che fin qui sono mancate, anche se rimane ancora piuttosto larga la forbice tra le quantità stoccate nei frigoriferi e quelle effettivamente usate – fronte nel quale si è attestato con autorevolezza su posizioni battagliere e rigorose in sede europea.
Se così stanno le cose, e ho ragione di crederlo, penso che sia giunto il momento, per Draghi, di cambiare l’approccio tattico. È evidente che non ci sono le condizioni, di tempo ma non solo, per anteporre o anche solo accompagnare al piano vaccinale una riforma strutturale della sanità, cosa che peraltro richiede un ancor più complesso intervento sul fronte della architettura del nostro decentramento amministrativo. Ma ciò non toglie che fin d’ora l’indispensabile cambio di passo nelle vaccinazioni – che significa: più dosi a disposizione, più vaccinatori e luoghi di vaccinazioni, maggiore rapidità nell’esecuzione del piano, sburocratizzazione assoluta dei processi, accentramento dei registri e dei sistemi di rilascio delle attestazioni – debba essere caratterizzato, abbandonando la cautela fin qui praticata, da una sorta di commissariamento delle Regioni. L’ultima legge di Bilancio, infatti, contempla la possibilità di trasferire allo Stato i poteri regionali di “attuazione e coordinamento delle misure per il contenimento e il contrasto dell’emergenza epidemiologica”. Si tratta di attuarla, almeno nei confronti delle amministrazioni regionali inadempienti alle direttive centrali. Ma con un’accortezza: l’intervento andrebbe inquadrato fin da subito in un progetto di carattere costituzionale di riordino del titolo V e di riforma strutturale della sanità. Per due ordini di motivi. Il primo è per renderlo più efficace, il secondo per legittimarlo politicamente.
Di cosa stia parlando non dovrebbe sfuggire ai lettori più affezionati di TerzaRepubblica, visto che sono anni che segnalo la distorsione del “federalismo sanitario”, che è l’effetto più perverso del regionalismo, e indico la via d’uscita. Provo a riassumere. Primo, la riforma della sanità. La quale deve avere tre finalità: una ridefinizione giuridico-amministrativa del sistema sanitario, un recupero della territorialità e della funzione del medico di base, e infine una modernizzazione e un potenziamento delle strutture edilizie e delle infrastrutture tecnologiche e digitali. Secondo, il fatto che nel tempo si siano creati 20 sistemi sanitari diversi – cosa che oltre a complicare i processi decisionali e moltiplicare le procedure amministrative, ha lasciato campo a gestioni clientelari delle Asl (nomine, acquisti, appalti) con i servizi che sono andati via via peggiorando – e che le Regioni gestendo la sanità per due terzi con fondi non legati al loro prelievo fiscale si siano via via deresponsabilizzate, rende evidente che prima di tutto occorra ridare unicità al servizio sanitario, ripristinando il dettato costituzionale che tutela l’uguaglianza dei cittadini, e che per farlo sia indispensabile riaccentrare le competenze sanitarie in capo allo Stato attraverso una moderna forma mutualistica (per esempio copiando il felice modello olandese). Terzo, siccome la spesa sanitaria pubblica incide per oltre il 70% sul bilancio delle Regioni, togliere il sistema sanitario dalle grinfie delle Regioni significa inevitabilmente ripensare il decentramento amministrativo, anche (ri)mettendo mano alla riforma del titolo V della Costituzione.
Ne seguirebbe, come ovvio, un ripensamento dell’intera architettura, elefantiaca e obsoleta, delle autonomie, perché le Regioni senza la sanità non avrebbero più ragion d’essere, e una loro messa in discussione – prendendo atto, a 50 anni esatti dalla nascita, del loro fallimento – aprirebbe la porta ad un ripensamento più generale. Come ha saggiamente suggerito l’ex presidente della Consulta, Cesare Mirabelli, facendo notare che il “micro sovranismo” regionale, cui abbiamo assistito con raccapriccio durante la gestione della pandemia, non abbia senso compiuto in un Paese come l’Italia, che federale non è ma si comporta come se lo fosse. Si tratterebbe di ridisegnare la cartina geografica d’Italia, definendo una cinquantina (non di più, la Società Geografica Italiana ne ha individuate 35) di maxi-province – alle quali rifluirebbero le competenze residue delle Regioni, una volta tolta la sanità – e riducendo fortemente il numero dei oltre 8 mila Comuni stabilendo il tetto minimo dei 5 mila abitanti (oggi più dei due terzi sono sotto questa soglia). Senza contare che a quel punto l’universo composto da comunità montane, enti di bacino, municipi e consigli di quartiere e i molti altri enti di secondo e terzo grado, con potere di spesa e diritti di veto, potrebbe in quel contesto di riforma essere facilmente ridimensionato.
Qualcuno potrebbe temere che tutto questo ambizioso progetto possa diventare un comodo alibi per chi non voglia muovere foglia. Il pericolo c’è, è inutile nasconderlo. Ma il ragionamento potrebbe essere facilmente rovesciato: non possedere e dunque non proporre al Paese un disegno riformatore del genere rischia di impedire che il decisionismo che un esecutivo come quello di Draghi vorrebbe imporre, rimanga una semplice aspirazione, frustrata dalla pervasività delle storiche impasse italiche. Certo, agli italiani andrebbe detta la verità da parte di Draghi: io ho un orizzonte limitato, e dunque concretamente mi prefiggo di vaccinarvi tutti nel migliore dei modi e nel minor tempo possibile; ma per farlo vi dico che fin d’ora va immaginato un progetto riformatore profondo, che io avrò solo la possibilità di impostare, senza il quale il mio agire rischia di somigliare a quell’autista finito con l’auto in un pantano, le cui ruote sollecitate dai reiterati colpi di acceleratore girano vorticosamente nel fango con il solo effetto di lasciare la macchina lì dov’è, facendola sprofondare sempre di più.
Troppo impegnativo? Capisco, ma altrimenti uno come Draghi che ci sta a fare in quel maledetto posto che sia chiama governo del Paese?