“The Draghi delusion”, titola l’Economist, ricordandoci come l’Italia fin dai tempi di Machiavelli coltivi l’illusione del “salvatore” (qui il link all’articolo). Già, è lunga la lista degli italici “unti dal Signore” che sono stati accolti come coloro che, nonostante i nostri difetti e limiti, avrebbero rimesso a posto le cose. Uomini del destino su cui endorsare responsabilità e aspettative, per poi scaricare loro addosso la colpa dell’inevitabile disillusione. Ora la palma del “ci pensa Lui” è toccata a Mario Draghi, che pure non avrebbe, almeno caratterialmente, il physique du rôle adatto. E nel Paese è montata l’attesa per un piano vaccinale così rapido ed efficace da far dimenticare le mille inefficienze mostrate dalle 20 sanità regionali in cui follemente si articola il sistema sanitario nazionale, per un piano per i fondi del Recovery che magicamente si guadagnasse il plauso di Bruxelles e degli altri paesi europei e che altrettanto magicamente facesse ripartire l’economia ferma da un quarto di secolo, per riforme strutturali al palo da sempre perché (inevitabilmente) scontentano qualcuno e non sia mai, ma di cui ci piace riempirci la bocca per farci stare in pace con la nostra coscienza civica. Insomma, niente di meno che smuovere le montagne. E, si sa, in un mondo complesso come quello in cui viviamo e in una società frantumata come la nostra, è dura spostare una carta o un dipendente pubblico, figuriamoci le montagne.
E già che Draghi è uomo di statura internazionale, di grande esperienza, abituato alla complessità. Ma prima di lui, molti italiani si sono lasciati abbagliare da chiunque. Da un arruffapopolo incolto come Di Pietro, da un finto secessionista in canotta come Bossi, da un grande venditore di illusioni come Berlusconi, a sua volta sinceramente illuso che governare un paese fosse come gestire un’azienda. E persino da un saltimbanco, per di più modesto, come Grillo, la cui unica modalità espressiva è stata – e resta, come abbiamo potuto constatare in queste ore – ruttare (chiedo scusa, ma quando ci vuole, ci vuole) un qualunquistico “vaffa” addosso a chiunque. Un viatico che gli è valsa la possibilità, incredibile ma vero, di portare nelle aule di Camera e Senato il più grande gruppo parlamentare della legislatura iniziata nel 2018, talmente forte da restare primo nonostante la più clamorosa emorragia della storia repubblicana.
I lettori affezionati di TerzaRepubblica sanno che ho sempre scritto poco e malvolentieri di Grillo, considerandolo il nulla. Tantomeno intendo farlo ora che tutti ipocritamente gli voltano le spalle per quel video su suo figlio presunto stupratore. Fatti suoi e della sua famiglia (e, purtroppo, anche di chi se ne professa vittima). Ma Grillo, che ci piaccia o meno, è il fondatore, “padrone” e capo politico effettivo del partito di maggioranza relativa, costantemente al governo in tre diversi e per certi aspetti opposti esecutivi, dall’inizio della legislatura. Un “movimento”, come gli piace definirsi, che tra esaltazione della mediocrità (uno vale uno), dell’anti-politica (tutto il resto è casta), del no a tutto (in nome della decrescita felice), dell’assistenzialismo senza se e senza ma (reddito di cittadinanza) e del giustizialismo (Travaglio e Davigo docet), in questi anni ha maledettamente condizionato non solo la politica, ma anche la comunicazione dei media e il pensiero collettivo, specie quello che corre sui social. E questo mi costringe a porre al signor Grillo – astutamente tenutosi lontano dagli scranni parlamentari, ma desideroso di andare in delegazione al Quirinale nei momenti topici e di arrogarsi il diritto di scegliere il capo formale della sua creatura – un problema politico rilevante, rispetto a come si è posto nella vicenda del figlio. Traducibile in una lista di quesiti. Primo: essendo trascorsi quasi due anni da fatti su cui non pare possibile che il trascorrere del tempo possa aumentare la capacità degli inquirenti di trovare nuovi elementi, senza che sia stato deciso né il proscioglimento né la richiesta di rinvio a giudizio – cosa del tutto abituale nella disastrata giustizia italiana – non pare al politico Grillo che sia il caso di porsi la domanda sul perché avviene ciò? Secondo: è assolutamente legittimo che per Ciro Grillo valga la presunzione d’innocenza ed è deprecabile che egli sia sottoposto ad una morbosa attenzione mediatica, ma siccome questo dovrebbe valere per qualunque cittadino e così non è dal 1994, vuole il politico Grillo, almeno ora che è stato personalmente toccato da questa barbarie, prendere iniziative per porre rimedio? Quel Bonafede ministro della Giustizia nei due governi Conte, non era forse un suo uomo pentastellato? E com’è che ha mostrato di non sapere che se nel processo accusatorio, teoricamente l’accusa è una parte al pari della difesa, nella vita giudiziaria di tutti i giorni questo equilibrio è palesemente violentato a favore della spettacolarizzazione dell’accusa? E come mai questa indifferenza, che ora nei fatti Grillo denuncia perché riguarda il figlio, non ha mai ricevuto alcuna pubblica disapprovazione da parte dell’azionista di maggioranza della 5stelle Spa? Terzo: se normalmente per i tre gradi di giudizio passano tra i 10 e i 15 anni, perché a questo scandalo il partito di Grillo ha voluto aggiungercene un altro, e cioè la cancellazione della prescrizione, per cui una procura soccombente in primo grado può mantenerti imputato a vita? Lo sa Grillo che una mostruosità di tal genere, che nega il fondamento del diritto, potrebbe toccare anche a suo figlio?
Sono domande che, di fronte alla piazzata del giustizialista toccato sulla famiglia, non ho visto porre dai tanti sepolcri imbiancati che in questi giorni si sono peritati di giudicare Grillo padre, Grillo comunicatore, Grillo maschio. Eppure riguardano uno snodo fondamentale della nostra vita pubblica. Forse quello più decisivo. Perché la giustizia malata rappresenta una violenza allo stato di diritto, una tara del pensiero collettivo che sfoga i suoi rancori con il tintinnio delle manette, un disincentivo letale per lo sviluppo dell’economia, un nutrimento per la burocratizzazione dei processi sociali che alimenta la già diffusa deresponsabilizzazione di tutti verso tutto.
Forse qualcuno di voi si domanderà perché ho voluto legare l’iniziale riferimento a Draghi con queste considerazioni circa le contraddizioni di Grillo in materia di giustizia (e non solo). Semplice: perché sono convinto che per l’attuale presidente del Consiglio sarà proprio la giustizia la linea di demarcazione tra la sua riuscita e l’ingresso senza uscita nella lunga lista di coloro che prima hanno illuso e poi disilluso. Sì, lo so, Draghi è lì per vaccinarci presto e bene, precondizione per poi rimettere in moto l’economia. E tutto il resto può apparire un lusso. Ma, come prescrive l’Europa, il PNRR passerà al preventivo controllo di congruenza con il Next Generation EU solo se conterrà indicazioni precise su alcune riforme strutturali che l’Italia deve fare, e i soldi del Recovery arriveranno se queste riforme saranno concretamente realizzate, oltre che enunciate. Dunque, già da questo si vede come l’orizzonte programmatico di Draghi debba spingersi oltre il duo “vaccini & ripresa economica”. Se poi si pensa che nelle tre tipologie di riforme inserite nel PNRR – orizzontali, abilitanti (cioè semplificazione e promozione della concorrenza) e settoriali – la prima contiene, oltre che un intervento sulla Pubblica Amministrazione, la riforma del sistema giudiziario, si capisce come il tema giustizia, evocato da ogni governo e regolarmente abbandonato se non per peggiorare le cose, sia per Draghi comunque centrale.
Dico subito, però, che se nella versione finale del PNRR che il 30 aprile sarà depositata a Bruxelles, l’impostazione sulla riforma della giustizia sarà quella che è scritta nelle 17 pagine (su 319 complessive) che ho appena potuto leggere, non ci siamo. L’approccio, infatti, è: la nostra giustizia soffre di un fondamentale problema, quello dei tempi della celebrazione dei processi. E la conseguenza pratica enunciata è: dobbiamo modernizzare la macchina giudiziaria affinché questo problema venga affrontato e risolto. Ora, quello dei tempi biblici è uno dei problemi della nostra giustizia. Un tema centrale, sicuramente, e nell’ambito civile, e dunque per quanto riguarda le imprese, è il problema dei problemi. Ma non è l’unico. E soprattutto non basta digitalizzare per rompere quella concatenazione di problemi, abitudini, degenerazioni che fanno parlare di malagiustizia. Basta aprire i giornali (specie taluni) per capire che i processi si svolgono altrove rispetto alle aule giudiziarie. Basta scrutare ciò che finalmente ci è dato vedere del mondo giudiziario, per esempio leggendo il libro di Palamara, che pure contiene solo dei piccoli frammenti della realtà, per capire cosa bolle nel pentolone della magistratura, delle sue correnti e delle sue istituzioni superiori (Csm), per comprendere cosa significhi “uso politico” della giustizia. Basta leggere come sono scritte le sentenze (assolutamente scandalosa quella che riguarda Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, che sono andati a Siena per salvare il Montepaschi e sono stati condannati al pari di chi aveva fatto i disastri, e trattati come criminali seriali). Basta osservare che a Milano è ormai guerra aperta e senza esclusione di colpi tra la magistratura inquirente e quella giudicante, a tutto danno della giustizia e dei cittadini.
Insomma, i nodi della giustizia sono anche ma non solo e non prima di tutto, infrastrutturali e organizzativi. E senza affrontare tutti gli altri, e tutti insieme, le condizioni per riformare davvero la giustizia non ci saranno mai. E senza rimuovere il rapporto malato tra potere giudiziario e politica, il passaggio da palazzo Chigi di un uomo del valore di Draghi, potrebbe non riuscire a sovvertire la profezia di Macchiavelli sulla puntuale disillusione che provoca l’illusione dell’uomo forte al comando. E se così sarà, un nuovo Grillo si affaccerà, puntuale come la morte, al nostro orizzonte.