«Questo PNRR è un piano di ammodernamento di un modello di sviluppo insostenibile, non promuove la transizione ecologica e non affronta alla radice le cause delle crisi che stiamo vivendo»
Secondo Slow Food il piano non riconosce limiti e responsabilità dell’attuale modello di sviluppo ed è privo di una visione sovranazionale.
Si addensano molte nubi nel cielo del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. C’era da aspettarselo, tale è la posta in palio (complessivamente il Presidente Draghi parla di 248 miliardi di euro di investimenti) e tali sono gli interessi solleticati da questa enorme quantità di denaro.
«Quella che emerge dalla lettura del PNRR non è una strategia per la transizione ecologica ma piuttosto un programma per l’ammodernamento del Paese. Come se all’origine delle crisi che stiamo vivendo ci fosse principalmente una condizione di arretratezza dell’Italia rispetto al contesto globale e non, invece, un problema di modello di sviluppo. La transizione dovrebbe essere un passaggio da un modello all’altro e non un aggiustamento, pur se profondo, di un modello che si vuole perpetuare. Per fare un esempio: nei capitoli dedicati all’agricoltura si propone il rinnovo del parco macchine, che può anche non voler dire nulla in termini di transizione ecologica o, addirittura, può avere effetti negativi, se dovesse tradursi nel passaggio a mezzi sempre più pesanti che compattano sempre più i suoli», afferma Francesco Sottile, a nome del Comitato esecutivo di Slow Food Italia.
«L’approccio del piano sembra fondarsi su una “riqualificazione dei consumi in salsa verde”. Il PNRR, insomma, sembra essere stato partorito non avendo piena coscienza delle cause che hanno determinato la più drammatica crisi dall’ultimo dopoguerra a oggi e rincorrendo vecchi modelli produttivistici di sviluppo conditi con parole come “digitalizzazione” (che sembra essere diventata la soluzione di tutti i mali dell’Italia), “ecodesign”, “green”: non è possibile, per esempio, che sui rifiuti si parli solo di riciclo e mai di riduzione, come pure non si capisce come in tutto il documento non compaia mai la parola agroecologia, l’unica pratica agricola che può rigenerare la terra e l’ambiente circostante», prosegue Sottile.
Il piano rimane, nel complesso, una grande opportunità e porta certamente con sé aspetti positivi, come l’attenzione alla parità di genere, alle politiche giovanili, la novità delle Green communities o la riforma della pubblica amministrazione. Purtroppo, però, nel suo complesso, manca di una visione veramente ecologica, forse a causa dalla fretta con cui si è elaborato il documento, in assenza di un adeguato dibattito: «La partita si è giocata principalmente in seno al Governo e alle forze politiche, con un coinvolgimento delle parti sociali che è parso più di facciata che di sostanza, per non parlare del bassissimo livello di interlocuzione con il resto del mondo, a partire dalle organizzazioni della società civile che pure avrebbero avuto molto da dare», continua Sottile. «Il PNRR italiano non ha il coraggio di mettere in discussione il modello di sviluppo insostenibile che è all’origine non solo della pandemia ma di tutte le crisi sistemiche che attraversano il nostro tempo: ambientale, climatica, alimentare, demografica, migratoria, economica e sociale, finanziaria e, infine, culturale e politica. Non si tratta solo di rimettere in moto l’economia, bensì di ripensare un modello di sviluppo in grado di riconsiderare la nostra impronta ecologica, far propria la cultura del limite, riqualificare il lavoro e le produzioni. Questa è la nostra idea di transizione ecologica».
C’è poi un altro aspetto fondamentale da evidenziare. Con il Next Generation EU, proprio per pensare alle future generazioni a partire dai nostri giovani, forse per la prima volta l’Europa politica ha avuto il coraggio di intraprendere un programma strategico fondato su alcune linee di lavoro che affrontano la crisi sanitaria, ambientale e produttiva. Non c’è ancora un cambio di paradigma, ma il fatto stesso di immaginare una politica economica e finanziaria europea (con l’inedita e prima sempre avversata emissione di titoli di debito europei) attorno ai grandi temi del futuro, rappresenta comunque una svolta importante.
«Ma in una nuova visione europea, ogni Paese non dovrebbe replicare gli stessi investimenti e le stesse linee di sviluppo, bensì riconsiderare vocazioni territoriali e ambientali, prerogative e unicità culturali, assetti proprietari e fiscali, devoluzione di poteri verso l’Europa e forme diffuse di autogoverno. Il Next Gen EU non dovrebbe essere la sommatoria di 26 piani nazionali e c’è una domanda che tutti dovremmo porci: è possibile affrontare le crisi che stiamo vivendo dentro lo spazio di ciascun Paese?».
Non è chiaro quanto la Commissione Europea vorrà e potrà fare per far acquisire ai singoli piani nazionali una visione sovranazionale ma Slow Food crede che «le dimensioni europea ed euromediterranea rappresentino l’ampiezza di sguardo necessaria se vogliamo che le straordinarie risorse messe in campo dall’Unione Europea possano risultare efficaci».
Scendendo nello specifico dei temi che più stanno a cuore a Slow Food, saltano subito agli occhi alcune assenze che pesano. «Non possiamo accettare che nell’elenco delle riforme non ci sia la legge sul consumo di suolo, e potremmo aggiungere anche la chiusura dell’iter della legge sul biologico. Come si fa a non considerare queste riforme come urgenti per un Paese che guarda alla transizione ecologica?», sottolinea ancora Sottile. «Inoltre, come già accennato, notiamo l’assenza della parola agroecologia: in presenza di un Green Deal e delle strategie Farm to Fork e Biodiversità 2030 (che pure vengono citate), è una dimostrazione di straordinaria miopia. Il grande investimento nelle energie rinnovabili, poi, solleva come minimo un grande punto interrogativo su quanto e come contribuirà alla conservazione delle risorse naturali, e non il contrario: a questa domanda occorrerà dare una risposta prima che partano gli investimenti. Si parla di biometano senza approfondirne i termini, con il rischio che una misura di economia circolare diventi un ulteriore stimolo a incentivare un sistema di allevamento intensivo. Anche perché la sensazione è che, almeno per quanto riguarda la parte agricola, questo piano sia di stretta vocazione industriale: logistica, commercio e internazionalizzazione sono utili e necessarie ma vengono dopo fertilità del suolo, ruolo dell’agricoltura nella gestione del territorio, biodiversità agricola, prossimità e filiere, il cui ruolo nel PNRR non ci sembra invece adeguatamente considerato».
Il tema del cibo, per noi così cruciale, investe in maniera trasversale l’ambiente, l’agricoltura, le attività artigianali e industriali di trasformazione, la salute, la cultura e l’educazione, la ricerca, il commercio e il turismo, la cooperazione… Ha a che fare direttamente con la crisi climatica, con la crisi alimentare e molto spesso con i processi migratori. Per queste ragioni, come Slow Food crediamo vi si debba riservare una nuova centralità, contrariamente alla disattenzione e alla marginalità che si evince dalla stesura del PNRR.
Infine, anche l’attenzione per le aree interne, così importanti per l’agricoltura e la biodiversità in particolare, è ampiamente inadeguata: eppure proprio la pandemia sembrava averci mostrato le opportunità per costruire efficaci politiche di rigenerazione di terre alte e aree rurali.
I tempi imposti dalla scadenza del 30 aprile non offrono oggi margini per una discussione e un ripensamento profondo del piano. Tuttavia, la partita non è chiusa: a fare la differenza sarà il modo in cui i soldi saranno effettivamente spesi e c’è ancora la possibilità di incidere. In questa ottica, Slow Food propone 5 punti, che considera imprescindibili, da portare in evidenza nel seguito del cammino del PNRR:
- l’approvazione di una legge per fermare il consumo di suolo;
- la riduzione e riqualificazione dei consumi come asse portante di tutto l’approccio;
- l’avvio di un grande programma nazionale di educazione alla cittadinanza sui temi della transizione ecologica e dell’alimentazione, a partire dal coinvolgimento delle scuole;
- una maggiore centralità del cibo e il rafforzamento di politiche locali legate a modelli agricoli non industriali;
il rafforzamento, anche in termini di risorse dedicate, delle Green communities (pensate per le aree interne ma che potrebbero essere interessanti su tutto il territorio, anche le isole).