“Il livello di rimborso insostenibile, pari a più di 3,6 mld di euro”
Roma – “In base ai dati resi noti dalla Corte dei Conti riferiti al 2020 si registra un incremento della spesa payback a carico delle imprese pari ad oltre 3,6 miliardi di euro. Una cifra ‘monster’, un vero e proprio peso sulle spalle delle aziende maturato negli anni 2015-2020 che non può oggettivamente non gettare più di un dubbio riguardo sia alla congruenza del meccanismo sia alla sua sostenibilità. Alcune aziende hanno accumulato questo peso che prima o poi, se non interverrà la politica, cadrà sulle loro teste come una spada di Damocle. Qualora fossero applicati i decreti attuativi, ci troveremmo infatti in presenza di un rimborso insostenibile”. È quanto dichiara Massimo Riem, presidente della Federazione italiana fornitori in sanità (Fifo), la federazione tra le Associazioni regionali delle imprese che svolgono attività commerciale per la fornitura di beni e servizi nel settore delle forniture ospedaliere, che aderisce alla Confcommercio.
“Alla luce di questo- spiega- Fifo Sanità è convinta che il meccanismo del payback sia fortemente vessatorio nei confronti delle imprese fornitrici e ne chiede l’immediata cancellazione. Per quanto riguarda il futuro si potrebbe pensare di alzare anche di un punto e mezzo il tetto alla spesa, andandolo a modulare regione per regione e tenendo conto dei differenti modelli organizzativi”.
Riem aggiunge infatti che “se penalizza le grandi imprese multinazionali, il payback porterebbe addirittura alla chiusura di molte Pmi italiane, fino al 50%, che hanno nel mercato domestico il loro unico mercato di sbocco. Si tratta di aziende che rappresentato il 95% del tessuto imprenditoriale italiano del settore e dei relativi occupati”.
Dunque, proprio in base al payback un’azienda dovrebbe mediamente rimborsare cumulativamente il 50% del proprio fatturato annuale. Milioni di euro per ogni singola azienda che non riguardano nè i fatturati nè la redditività e che, di fatto, metterebbero in ginocchio gran parte delle stesse aziende.
Secondo Riem “questo significherebbe distruggere gran parte, se non tutto, il sistema delle piccole e medie imprese, che si troverebbero a dover rimborsare un importo assolutamente insostenibile. Basti pensare che lo sforamento è cresciuto da più di 1 miliardo di euro nel 2015, pari al 21,7% della spesa ammessa, a oltre 1,6 miliardi nel 2020, ossia al 31% del tetto”.
Analizzando nel dettaglio il payback complessivo, tra l’altro rimasto inapplicato in questi anni nel settore dei dispositivi medici, si passa da 416 milioni di euro nel 2015, ai 474 nel 2016, ai 553 nel 2017, ai 643 nel 2018, fino ai 710 nel 2019 e agli 821 nel 2020.
La legge 111/2011 articolo 17, di conversione del dl 98/2011, ha introdotto un tetto alla spesa pubblica in dispositivi medici. Fissato originariamente al 5,2% del Fondo sanitario ordinario (Fso), il tetto è stato successivamente oggetto di ripetute revisioni al ribasso che l’hanno portato dapprima al 4,9%, poi al 4,8% e, infine, al 4,4% a decorrere dal 2014. La Manovra finanziaria del 2015 ha però stabilito che, in caso di sforamento del tetto da parte di una regione, una parte della spesa in eccesso, pari al 40% nel 2015, al 45% nel 2016 e al 50% a decorrere dal 2017, dovesse essere rimborsata dalle imprese fornitrici.
Negli anni 2015-2020 si è registrato un aumento della spesa effettiva pari al 18,3%: 5.782 nel 2015, 5.838 nel 2016, 5.986 nel 2017, 6.226 nel 2018, 6.430 nel 2019 e 6.842 nel 2020, pari in valore assoluto a più di 460 milioni di euro. La spesa ha subito un aumento del 18,3%, passando da 5,8 miliardi di euro nel 2015 a 6,8 nel 2020.
Come si sono comportate le regioni? In quale modo hanno gestito il payback nel periodo 2015-2020? Il presidente Riem preferisce non parlare di ‘buoni e cattivi’ ma sottolinea come a livello percentuale “il Lazio presenti uno sforamento marginale dei dispositivi e anche la Campania e la Calabria possono vantare buoni dati. Capitolo a parte è la Lombardia, che non ha sforamento e non ce ne è evidenza perchè l’uso dei dispositivi è esternalizzato verso strutture private”.
Riem spiega infine che “alla luce di tutto questo è evidente che i dati debbano essere calcolati su base omogenea o saremo di fronte a un dato puntuale, quello numerico, altrimenti i criteri di valutazione saranno totalmente disaggregati e disomogenei” conclude.