Pierfranco Bruni
Omero è in Pavese. I miti gli dei il viaggio. Il silenzio e le ombre. Lo spazio mitico è in Pavese, il quale cercò la sua immortalità con tre libri. Le parole sono immortali. Quando vengono incise e non solo dichiarate restano testamento. Il testamento di Pavese fu dantesco sino al libro postumo in cui la morte arrivò e la si cercò negli occhi. In quelli di Leucò – Beatrice. Quella morte che ci accompagna dalla mattina alla sera.
Fu la bianca dea nel greco suggello dei versi di Saffo o di Ibico che favorirono un dialogo nel e del mito. Tra Dante e Pavese le eroine di Ovidio trascinarono il tempo in un cammino di archetipi in cui i sogni divennero la liturgia del mito. Una strega e una dea toccarono l’abisso di Pavese. Una donna verità finzione e una innamorata e infedele scavarono il passo di Dante.
Donne e mito. O meglio archetipi e ricerca di conoscenza strinsero il cerchio della morte e dell’esilio. Anche Pavese conobbe l’esilio e in quell’esilio capì la profondità del mito greco e del rito del selvaggio. Nell’esilio Dante capì che ogni uomo è solo fino a quando la solitudine non diventa condizione umana della risalita verso le stelle. La luna fu per entrambi metafora di luce e di fuoco.
Ma quale furono i percorsi di Pavese che lo condussero ad impossessarsi di Dante? “La luna e i falo”, 32 capitoli. Il 33esimo lo aveva scritto anticipando, ovvero “Dialoghi con Leucò”. Il proemio venne sostituito dal gorgo muto che fu il silenzio della parola scolpita nella rupe e nelle acque dell’isola immaginata inventata immaginaria: “Verrà la morte…”.
Circe e Calypso sono l’ultimo canto di Ulisse – Pavese. L’immortalità è il destino inequivocabile di un dolore omerico che accompagna le ferite dell’immobile silenzio della solitudine come volontà della potenza nel tragico sentire il tempo. Per amore vorrebbero regalare l’immortalità. Beatrice e Frsncesca, donne infedeli, per amore cercano di diventare destino.
Con una imprecisione che non segna un errore ma la forza dell’attrazione di un abisso esistenziale. In Dante si suggella la Ragione e cerca di raggiungere una giustificazione o per lo meno un tentativo di spiegazione. In Pavese la Ragione viene completamente vinta dal Mito.
La grecità è Pavese della memoria, del tempo tragico e antropologico, del mistero e della ricerca anche della “maturità” come nella luna che ha i riflessi del falò. Pavese è greco nel suo pensiero metafisico e Mediterraneo.
Il medievale Medio Evo è radicamento in Dante. Ma è un tempo di sintesi che raccoglie bene l’eredita greca filtrandola in Virgilio. Ma resta anch’esso omerico e quindi greco. Ovvero ulissico. Sia Pavese che Dante hanno l’ulissismo tra la Ragione e il Mito. Oltre la virtù e oltre la conoscenza. Dentro il mistero e il destino. Questo in Pavese è forte e labirinticamente certo. In Dante è un enigma nell’inconsapevole visione meravigliosa del metafisico tra teologia e mistero. Il mistero è il tempo primordiale e il mito è la voce del tragico nel Pavese che attraversa la selva oscura. La selva è una metafora costante tra la vita e la morte. Pavese è uno spazio mitico nella metafora dell’oltre siepe