La “Commedia” di Dante ha il tragico nel destino del viaggio e i personaggi sono il male del perenne peregrinare in un patire profondamente umano. L’ironia è forzata, a volte, anche se il tragico cerca sempre la maschera e si serve dell’immaginario per superare la storia. Non c’è la storia in Dante. C’è il bisogno di non sottrarsi ad un ultraterreno che ha la dimensione filosofica nella ricerca della perfezione.
Ebbe a scrivere Auerbach: “Spesso un verso [di Dante] richiede forza e tempo quasi impossibili prima di schiudere qualcosa di quello che vi è contenuto; ma quando si è riusciti ad avere una visione d’insieme, allora i cento canti, nello splendore delle terzine, nel loro sempre rinnovato intrecciarsi e sciogliersi, svelano la leggerezza di sogno e l’inattingibilità della perfezione, che sembra librarsi senza fatica, come una danza di figure ultraterrene” (Erich Auerbach, “Dante, poeta del mondo terreno”).
La costante contraddizione è un intreccio tra il bisogno di salvezza, la forza della pietà e il patire come superamento del compatire. Infatti le tre coordinate antropologiche e filosofiche sono dettate dal senso di colpa, dalla necessità di perdonare e dall’impossibilità di toccare l’immortale come infinito. Sono, appunto, le tre Cantiche, nelle quali la Commedia viene completamente superata dalla sopravvivenza del tragico. Lo stesso cristianesimo è tragico in Dante. È come se usasse il pensiero di Euripide nel “qualcuno c’è e ci trascende”.
La pietà e l’impossibile sono caratteristiche che attraversano, in modo particolare, il “Purgatorio”. Un impossibile che chiede a Dio di esistere. Il tragico è anche qui. Ovvero resta, come direbbe Sergio Quinzio, all’interno della fede. Solo Dio ci può salvare ma Dio deve esistere non come immagine ontologica ma come reale vivente. Il problema è, appunto, tragico. Come nella salvezza. La Grazia si raggiunge con il patire, quindi con il dolore. È come se giunti alla pietà ci si dimenticasse di cosa si è vissuto prima, ovvero il terrore.
L’Inferno è il terrore, ovvero il terribile. L’inferno si rivela come si rivela la pietas. Come ci raggiunge la solitudine del compatire. Ecco perché occorre “…sottrarre Dante alla retorica scolastica, sottolinea Mandel’štam, equivale a rendere un servizio non da poco a tutta la cultura europea». Egli dichiara anche: «è indispensabile dar vita a un nuovo commento dantesco, che rivolga la faccia al futuro e metta in luce il legame dell’autore della Commedia con la nuova poesia europea”. Senza dimenticare che per Mandel’štam Dante resta “nella tradizione” soprattutto per una “sperimentazione appassionata”.
La lezione giunge Jorge Luis Borges quando afferma che “La Commedia è un libro che tutti dobbiamo leggere. Non farlo significa privarci del dono più grande che la letteratura può offrirci, significa condannarci a uno strano ascetismo. Perché negarci la gioia di leggere la Commedia? Oltretutto non è una lettura difficile. È difficile ciò che sta dietro la lettura: le opinioni, le discussioni; ma il libro in sé è un libro cristallino. E poi c’è il personaggio centrale, Dante, che è forse il personaggio più vivido di tutta la letteratura; e poi ci sono gli altri personaggi…”.
Dante personaggio è il dato (o il lato) più problematico nel tragico di un’ironia che non abbandona il viaggio. Il viaggio ha la selva e la siepe nella visione di un orizzonte infinitamente vissuto tra il bene e il male. Un vissuto che è fatto di delirio e di ombre che giungono a toccare il sogno e l’illusione come in Calderon de la Barca quando cesella: “Io sogno di esser qui | oppresso da questa prigione | e ho sognato che in un altro stato | più lusinghiero mi sono visto. | Che è la vita? Un delirio. | Che è la vita? Un’illusione, | un’ombra, una finzione, | ed il bene più grande è piccolo; | che tutta la vita è sogno | ed i sogni, sogni sono“.
Qui si supera completamente l’insistenza di volerla Commedia. Dante non è Commedia. Ed essendo egli il personaggio centrale nel patire e nella pietas il tragico è, appunto una sopravvivenza dell’errore della caduta nel delirio del sogno. Il concetto di Giobbe mi sembra una metafora che attraversa l’opera completa di Dante. “…quel che mi spaventa mi raggiunge…”. Infatti lo ha raggiunto la solitudine o meglio l’abbandono.
La solitudine di Dante è abbandono. Essere stato abbandonato è essere entrato nella dimenticanza. L’esilio è, infatti, l’andare oltre il patire per toccare la terra del compatire. Cosa c’è di Commedia in tutto questo? L’Opera di Dante è l’autobiografia dell’uomo e del poeta. Qui è il punto vero della metamorfosi di una Commedia in tragedia.
Il terrore e la pietà: si toccano sempre questi due estremi complementari in una esistenza tragica. Il dolore per Dante resta destino. Come un antico greco che si affida agli dei anzi che ruba il fuoco agli dei come Prometeo. Ed essendo occidentale e cristiano Dante è la consapevole figura del cristiano tragico. Cerca Dio ma trova la Grazia. O si inventa la Grazia. Dante dunque non è moderno. Perché? In lui abitano la pietà e l’impossibile.