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di Domenico Bilotti

 

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Quando i leader politici che segnano un momento storico, coi suoi meriti e le sue miserie, tornano in campo c’è da stare attenti. Se da un lato stanno evidentemente cercando di rituffarsi nell’arena, dall’altro è dovere dello studioso andare a verificare come si siano modificati i presupposti della loro legittimazione sociale. Tony Blair, soprattutto nel primo mandato da primo ministro britannico, poteva intestarsi alcune vittorie non di poco conto. In un periodo in cui tutti davano per scontata la scolarizzazione di massa, tallonato dal sociologo Giddens, ha investito risorse nella formazione primaria – prima che il tandem si mettesse a sproloquiare di “terza via” tra riformismo socialista e capitalismo liberista. Aveva poi battuto un immaginario che stava distruggendo il partito del Labour in Gran Bretagna: il partito della sconfitta, il succube della parabola conservatrice, che si eternava ormai stancamente senza avere nemmeno la classe dirigente e l’energia che la aveva portata al potere nei tardi Settanta e per tutti gli Ottanta. Blair aveva capito che doveva passare un Labour nuovo: non quello degli stanzoni in affitto a Manchester, ma quello in linea con una Gran Bretagna multietnica, ansiosa di sfide, capace di canalizzare intorno a sé un consenso che non si vedeva da decenni. Dopo questi primi risultati, sono arrivati insuccessi clamorosi: la legislazione lavorististica ha aperto margini sempre più consistenti al potere datoriale, l’istruzione scolastica superiore e universitaria ha raggiunto costi difficilmente sopportabili per le famiglie della classe media impoverita, la politica estera è divenuta inutilmente più aggressiva di quella dell’Unione Europea, pure troppo spesso impalpabile. E così andiamo all’oggi. Rinomato conferenziere, ancora mentore e guida di numerosi quadri locali del partito laburista ma complessivamente inviso anche a settori pregiudizialmente non ostili della società inglese, Blair non ha perso tempo a criticare il ritiro dall’Afghanistan (invero, decisamente mal gestito), a rivendicare l’intervento militare che aveva deliberato egli stesso al fianco di Bush junior, mettendo sotto stress l’impalcatura tutta del diritto internazionale di matrice culturale occidentale.

Sia chiaro, alcune cose Blair le dice e individua. Ammette che la politica legislativa – come le tante riforme codicistiche, anche in Italia, in materia di antiterrorismo – ha giocato una partita sfalsata, credendo che il terrorismo fosse un insieme di condotte singole e non una struttura associativa permanente da combattere sul piano strategico. Critica l’exit strategy dell’amministrazione Biden e si pone subito il problema dei rifugiati, anche come vettore per saggiare la risposta migratoria dell’Europa alle inevitabilmente sempre più frequenti crisi politico-umanitarie. La bontà della sua analisi finisce qui, almeno riguardata con gli strumenti della pratica giuridica. Sul resto, c’è da restare molto perplessi.

Innanzitutto, paragona l’islamismo tutto (non solo quello accondiscendente alle condotte terroristiche) al comunismo sovietico, ma il paragone non regge: il primo ogni volta che ha preteso di darsi basi territoriali nel prisma di una sovranità statale – il caso dell’ISIS – ha fallito; il secondo è stato un paradigma del diritto pubblico euro-orientale per decenni. Il primo ha un seguito anche in Occidente, ma le sue basi operative sono spesso fuori d’esso. Il secondo ha avuto consensi anche nelle opinioni pubbliche liberali perché è apparso un vettore di giustizia sostanziale – solo in parte assimilabile al risentimento alimentato dalla propaganda terroristica rispetto al fallimento delle politiche internazionali di disarmo e di inclusione. Non una parola però sulla questione penitenziaria e sui crescenti rischi di radicalizzazione armata in carcere anche a danno di soggetti detenuti in condizioni degradanti e privi di precedenti esperienze con le milizie del nuovo terrorismo fondamentalista. Non una parola sul ruolo fecondo che possono giocare nella de-radicalizzazione gli imam e l’assistenza spirituale nelle comunità separate. Non una parola sulla condizione di genere, che sarà al centro di un’ondata restrittiva in tutti i Paesi in cui le nuove maggioranze politiche cercheranno di sfruttare il collante religioso osservante per coagulare. Non una nota di autocritica sugli errori strategici e sugli interessi economici dei governi che al tempo degli esecutivi di Blair sceglievano gli obiettivi difensivi sulla base di calcoli opportunistici, ma trincerandosi sempre dietro una “esportazione di democrazia” che innovava positivamente le norme e che tuttavia lasciava le persone in carne e ossa prive di infrastrutture materiali e immateriali per la fase di transizione.

Abbiamo fatto in tempo a studiare il discorso congiunto con cui Angela Merkel e David Cameron dichiararono fallito il multiculturalismo (loro che lo avevano in qualche misura determinato nella sua degenerazione attuale, favorendo la formazione di ghetti socio-economici ed etnici compartimentali) e quel discorso apriva a una stagione di norme internazionali e di diritto interno che mutarono di segno la legislazione migratoria almeno per una generazione – quella che stiamo ancora vivendo.

C’è da augurarci che il discorso di Blair non abbia alcuna capacità predittiva sul futuro della policy democratica comparata. Il “nostro” in effetti non è un occhio di lince, ma la cronaca d’Europa oggi è purtroppo piena di gatti ciechi.

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