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Il 15 settembre ricorre il 28° anniversario del brutale assassinio di una delle figure più nobili e rappresentative per la società italiana: Don Pino Puglisi. La statura morale e umana di tale personaggio è nota a tutti e l’importanza delle opere che il sacerdote realizzava per contendere ai clan anche un singolo giovane, diversamente da destinare alla manovalanza mafiosa, è riconosciuta universalmente. Pertanto, il Coordinamento Nazionale Docenti della disciplina dei Diritti Umani per commemorare Don Pino Puglisi non riproporrà un excursus sulle sue meritorie attività, ma un percorso di approfondimento relativo alle vittime di mafia che nel periodo dal 6 al 15 settembre furono eliminate soltanto

perché in qualche modo infastidivano i potenti boss.

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Operai, esponenti politici, poliziotti, guardiani, magistrati, donne e bambini furono travolti dalla violenza criminale di chi pretende di sostituirsi allo Stato e alle leggi. Esseri umani differenti, ma accumunati da un’unica sorte: opporsi all’illegalità. Oppure essersi ritrovarti nel posto sbagliato al momento sbagliato. Tanto vale la vita di un uomo per gli spietati sicari della malavita. L’efficacia del fatto criminoso, strumentalizzato ad arte dai mandanti, era determinata dalla sua intrinseca aggressiva visibilità, indizio di strapotere, da parte della mafia sul territorio, che le cosche quasi ricercavano con attentati eclatanti. La paura e la punizione diventano un binomio indissolubile: i cittadini dovevano sapere che la disobbedienza non sarebbe stata tollerata. Pertanto diventavano bersagli mobili tutti coloro che si rifiutano di subire.

Iniziamo il nostro viaggio con la storia del giovane Giuseppe Minoli, metronotte con alto senso del dovere, freddato la sera del 6 settembre del 2006, durante una rapina in una pizzeria di Monteruscello (frazione di Pozzuoli) in quanto estrasse  la sua pistola per difendere il proprietario del locale dai camorristi.

Il 7 settembre 1990 furono assassinate a Palermiti Elisabetta Gagliardi, una bambina di soli 9 anni e

Marcella, sua madre; essere imparentate, rispettivamente figlia e moglie, con un pluripregiudicato divenne un “crimine” intollerabile per la ferocia delle cosche. Morirono con più colpi d’arma da fuoco; non si trattò quindi neanche di una tragica fatalità: perfino l’infanzia, come i casi di cronaca hanno più volte riportato, viene oltraggiata dalla bestialità malavitosa.

La storia di Hiso è certamente una delle più emblematiche: ragazzo allegro e motivato, arrivato giovanissimo in Italia dall’Albania, cercava il suo riscatto attraverso lo studio e il lavoro. Idealista e coraggioso non volle cedere ai ricatti del caporalato di Cerignola e non volle neanche fuggire rispetto al pericolo imminente, morendo dopo tre giorni di agonia in seguito alle ferite provocategli dai caporali; i suoi aguzzini volevano un monito per chi non si fosse piegato alle intimidazioni; invece il nome di Hiso campeggia su una bottiglia di vino prodotta dalla Cooperativa Terre di Puglia – Libera Terra, sorta proprio nelle aree confiscate alla Mafia del brindisino. L’esempio di Hiso non verrà dimenticato e sarà sempre l’emblema della libertà e del coraggio.

Il 10 settembre del 1981, alle 20,30 circa, il Maresciallo Vito Jevolella, in auto con la moglie Iolanda, fu colpito da quattro sicari mafiosi muniti di armi da fuoco. Il Maresciallo Jevolella, abile investigatore, venne eliminato molto probabilmente per boicottarne definitivamente le indagini. Come tanti altri martiri della Legalità, elementi preziosi per il proprio Paese e da eliminare per i nemici dello Stato.

Luigi Ajovolasit era uno sfortunato giovane, assassinato in un bar di Palermo, in compagnia della sua ragazza, soltanto perché era un tossicodipendente che commetteva qualche piccolo furto per pagarsi le dosi. I Capi decisero di eliminarlo perché “rovinava la piazza”; tanto era un drogato, spazzatura; la vita umana non contava nulla e chi alimentava il narcotraffico si sentiva paradossalmente in dovere di esprimere giudizi morali su coloro che  aveva contribuito a rovinare. Furono tanti in quegli anni i giovani uccisi solo perché erano tossicomani, uccisi senza una ragione reale, come se la loro esistenza fosse pari a quella di un insetto. E invece devono essere ricordati.

Agostino D’Alessandro era un coraggioso guardiano di pozzi, nonché segretario della Camera del Lavoro di Ficarazzi (PA). Aveva intrapreso una battaglia contro il controllo mafioso sulla gestione dell’acqua per l’irrigazione dei giardini, senza sottomettersi alle minacce e alle persecuzioni malavitose. Fu ucciso a Ficarazzi (PA) l’11 settembre 1945, quando di mafia non si poteva neanche parlare in Sicilia e tale fenomeno veniva negato, taciuto, occultato agli occhi dell’opinione pubblica perché potesse prosperare in silenzio e in modo sotterraneo.

La vicenda di Antonio Ciardullo ed Ernesto Fabozzi è veramente emblematica rispetto al sistema / mentalità delle organizzazioni criminali: colleghi in una rimessa di automezzi a San Marcellino (CE), furono bersagliati da 20 proiettili, un’esecuzione in piena regola, Ciardullo per aver contribuito, ben dieci anni prima, all’arresto e alla condanna di un elemento di spicco del clan dei Casalesi, Fabozzi semplicemente perché era in sua compagnia durante l’agguato.

Pasquale Cappuccio, era un consigliere comunale di Ottaviano; nel lontano 1978 già aveva individuato il tentativo da parte della Camorra di appropriarsi illecitamente di uno dei settori più redditizi per la criminalità: lo smaltimento dei rifiuti. Le sue denunce, un affronto alla propagazione tentacolare delle cosche in ogni ambito economico, lo consegnarono alla morte: venne freddato in un assalto in pieno centro davanti alla moglie.

Graziano Antimo era Brigadiere del Corpo degli Agenti di Custodia e operava presso la Casa Circondariale di Napoli “Poggioreale”; il 14 settembre 1982, fu assassinato dai sicari della camorra per il suo ruolo: Antimo dirigeva da sei anni un ufficio “strategico”, in cui venivano disposti i trasferimenti, i permessi e la destinazione di ogni singolo detenuto all’interno dei reparti del carcere. Molte pressioni e intimidazioni rigettate ne decretarono “la punizione esemplare”.

Era appena andato in pensione il giudice Alberto Giacomelli, quando i sicari della mafia decisero di ucciderlo. Oggi costituisce probabilmente l’unico esempio di giudice in quiescenza eliminato dai boss. Uno dei suoi ultimi provvedimenti, proprio poco prima di abbandonare il proprio ruolo in tribunale, era stato quello di disporre il sequestro dei beni per Gaetano Riina, il fratello di Salvatore, capo indiscusso dei Corleonesi. Doveva pagare e così cadde il 14/09/1988 qualche mese dopo in un’imboscata sulla provinciale.

Giuseppe Cilia, operaio di 26 anni, fu colpito mortalmente il 14 settembre del 1995 a Comiso (Ragusa). Lavorava in un deposito di mobili. Il commando non era per lui: mirava al titolare del mobilificio, Giulio Ricca, che riportò alcune ferite con sua figlia Rita e il rivenditore Raffaele Tochio.

Raffaele Iorio era un autista di Napoli che pagò con la vita la sua onestà. La notte del 13 Settembre del 2000 subì un finto tamponamento finalizzato al furto del veicolo che conduceva, però di proprietà di un suo amico. Uscito dall’auto, appena accortosi del tranello, si aggrappò disperatamente alla portiera perché il mezzo non gli venisse sottratto. Morì per le ferite riportate e per essere stato lanciato contro un palo della luce; era un uomo serio e gentile.

Calogero Cicero e Fedele De Francisca erano due carabinieri semplici, falciati nel corso di uno scontro a fuoco con alcuni banditi di Palma di Montechiaro a Favara (AG) il 14/09/1945. Due lavoratori, due servitori dello Stato perdevano la vita per onorare la propria divisa.

Piero Carpita e Luigi Recalcati, addetti al servizio portineria di un palazzo in via Roma a Bresso, periferia nord di Milano, erano due vittime innocenti completamente estranee alle dinamiche che li condussero alla morte il 15/09/1990. I colpi che li freddarono erano indirizzati a Franco Coco Trovato, personalità eminente della malavita. “Danni collaterali” di scarsa importanza per chi vive all’insegna della violenza più brutale e ingiustificabile.

Don Giuseppe Puglisi, noto a tutti come Pino Puglisi, è stato un sacerdote italiano ucciso da Cosa nostra il giorno del suo 56° compleanno, il 15 settembre 1993, a causa del suo costante impegno contro le cosche. Aveva avuto una folgorante intuizione: evangelizzare e istruire i giovani di strada per strapparli a un futuro di ignoranza, abominio e criminalità. Incontrava i ragazzi, dialogava con loro e infondeva speranza nei loro cuori. Molti hanno cambiato la propria vita grazie all’ incontro con il sacerdote il cui ricordo non verrà mai cancellato né dalla memoria degli abitanti del Brancaccio, né dai cuori di chi continua a credere nella forza intrinseca della Legalità, del Diritto e della Democrazia.

Oggi c’è tanto bisogno di sperare nella forza delle idee e nel coraggio delle menti liberi.

Il CNDDU invita a onorare la figura di Don Pino Puglisi e degli altri martiri della legalità con gesti che si richiamino ai valori della nostra Costituzione. Il 15 settembre diamo vita a un’onda mediatica colorata per inneggiare ai valori civili. #nelsegnodiDonPinoPuglisi.

 

Prof. Romano Pesavento

Presidente CNDDU

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