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Ci sono due domande (serie) che aleggiano sulla politica italiana, e che richiedono risposte convincenti e definitive. La prima riguarda Mario Draghi e suona sostanzialmente così: assodato che si tratta della personalità istituzionale dotata di maggiore credibilità di cui l’Italia disponga, è meglio continuare a spendere questa carta a Palazzo Chigi, lasciandolo al governo per tutta le legislatura e magari anche dopo, o è più opportuno averlo per sette anni al Quirinale? La seconda interseca la prima e dice: ci sono le condizioni ed è appropriato che Sergio Mattarella faccia un secondo mandato da presidente della Repubblica, limitato ad un periodo circoscritto ancorchè non formalmente definibile? Proviamo a dare risposta a questi quesiti, invertendone l’ordine, cercando di definire ciò che dovrebbe risultare più utile per il Paese.

 

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Il mio giudizio è che Mattarella debba restare al Quirinale, e per un motivo oggettivo che dovrebbe indurlo a mettere da parte le ragioni – più che valide e comprensibili, sia chiaro – che fin qui lo hanno spinto a far intendere di non essere intenzionato a ripetere ciò che fece il suo predecessore. La ragione sta nella legge costituzionale approvata nell’ottobre dello scorso anno che prevede la riduzione del numero dei parlamentari, da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori elettivi. Una norma pessima, figlia del “bipopulismo” italico, ma che tuttavia dispiegherà i suoi effetti pratici in occasione delle prossime elezioni politiche, che si svolgeranno tra circa 18 mesi nella primavera del 2023 (o prima in caso di sciagurata ipotesi di interruzione anticipata della legislatura). Essendo la scadenza del mandato presidenziale a febbraio 2022, che senso ha che un Parlamento destinato di lì a poco a ridursi di un terzo elegga un Capo dello Stato destinato a restare in carica per sette anni? Sia chiaro, non sto ponendo un tema di legittimità, che certo non manca, ma di opportunità istituzionale, che fin troppo chiaramente milita a favore dell’idea di far slittare il cambio al Quirinale subito dopo la formazione della “nuova” Camera e del “nuovo” Senato. Laddove per nuovo non s’intende il cambio degli equilibri politici che eventualmente le prossime elezioni potrebbero produrre – che non sarebbe un motivo né sufficiente né opportuno per evitare il cambio di inquilino al Colle – ma appunto la diversa configurazione numerica dei due rami del Parlamento.

 

Ecco allora che la questione, se posta in questi termini, assume un significato diverso rispetto alla lettura fin qui data: è una ragione istituzionale, non politica o personale, che chiama Mattarella a restare. Anzi, se per una situazione del genere fosse previsto l’istituto della prorogatio, cioè il prolungamento del mandato, quello sarebbe il meccanismo più corretto per produrre la permanenza dell’attuale presidente. Ma non c’è, ed è dunque lui che potrebbe e dovrebbe manifestare la sua disponibilità ad assumere un secondo mandato, specificando fin da subito che la ragione istituzionale che lo induce a questa scelta, venendo meno dopo le elezioni e l’insediamento del “nuovo” Parlamento, lo indurrà a dimettersi subito dopo. Non sarebbe un incarico con un termine formale, perché la Costituzione prevede solo il mandato pieno, ma questo non impedirebbe a Mattarella di chiarire immediatamente le sue intenzioni.

 

Se così fosse – ed è davvero molto auspicabile che così sia – l’altra questione che ho sollevato, il destino di Draghi, troverebbe risposta a prescindere dalle valutazioni specifiche che lo riguardano. È del tutto evidente, infatti, che se Mattarella imboccasse la strada del secondo mandato per ragioni istituzionali, il tema del Quirinale non si porrebbe nemmeno. O meglio, si posticiperebbe di un anno, ponendosi quando Mattarella lascerà nelle mani del rinnovato Parlamento il compito di scegliere il suo successore. In quel caso Draghi avrebbe terminato a tempo debito il suo mandato di presidente del Consiglio, e allora sì che in quel momento si porrebbe per lui, e per il sistema politico nel suo insieme, il problema se rendersi disponibile (lui) ed eleggerlo (i partiti) alla suprema carica della Repubblica, o se invece continuare nella sua esperienza di governo avendo un’intera legislatura davanti a sé. Cosa farebbe Draghi in quel caso? Difficile rispondere ora. Tutto dipenderebbe da quali risultati potrebbe consuntivare a marzo 2023 il suo governo, soprattutto in relazione alla realizzazione degli investimenti consentiti dalle risorse europee. Se l’ex governatore della Bce giudicasse a buon punto il percorso del Pnrr, e con lui il Paese, allora potrebbe pensare che anche il ruolo del presidente della Repubblica gli potrebbe consentire di sorvegliare lo svolgimento del Piano e di risponderne in sede europea. Se invece in quel momento dovessero essere ancora tante le cose da fare, allora il suo orientamento potrebbe essere quello di rendersi disponibile a restare a Palazzo Chigi.

 

Certo, tanto nel primo come nel secondo caso, non sarebbe lui solo a decidere. Per andare al Quirinale ci vogliono i voti, tanto più se il desiderio è quello di andarci alla prima votazione, con un grande consenso. Ma ancor di più per proseguire l’esperienza di capo del governo, a Draghi servirebbe il consenso di un Parlamento completamente ridisegnato, sia dal taglio del numero di deputati e senatori che dalle scelte degli elettori (che è sperabile siano significativamente diverse da quelle del 2018). Le quali dipenderanno in maniera inversamente proporzionale ai risultati del governo Draghi: tanto più avrà fatto bene, tanto meno saranno votati i partiti (chi più chi meno, tutti, anche quelli di maggioranza, tenuto conto che nessuno è considerabile elettoralmente beneficiario del decisionismo di Draghi). Ho scritto settimana scorsa che sono pronto a scommettere che, salvo cambi di passo a oggi inimmaginabili, tutti i maggiori partiti si troveranno sotto o al massimo intorno al 20%. E questo sempre che non si affacci sulla scena qualche nuova formazione dichiaratamente “draghiana” (anche senza il suo assenso esplicito né tantomeno il suo coinvolgimento diretto, che escludo). È chiaro che se così fosse lo schema bipolare in cui si è chiusa la politica italiana – nei giorni scorsi incomprensibilmente invocato ancora una volta da Enrico Letta, considerato che il Pd ha tutto da perdere dal perpetuarsi del “bipopulismo”, avendo come principale se non unico compagno di strada possibile ciò che rimane del movimento 5stelle – non riuscirebbe ad esprimere una maggioranza di governo. Con ciò costringendo le forze politiche a ritrovare un minimo di coesione trasversale per chiedere a Draghi di rifare il presidente del Consiglio (chi sennò?).

 

Ma torniamo a ciò che non solo è probabile, ma anche e soprattutto auspicabile. Per tutti noi, sarebbe meglio Draghi al Quirinale o a Palazzo Chigi (nel 2023)? La mia risposta, in termini di auspicio, è: dipende. Da cosa? Presto detto. Se Draghi non intende, né oggi né domani, porre la questione di una revisione degli assetti istituzionali dell’Italia – poco importa se perchè non la considera questione centrale e prioritaria o perchè, pur ritenendolo, non la crede praticabile – allora è meglio che opti per la continuazione, il più possibile lunga, dell’esperienza di governo. Se viceversa, egli pensa di raccogliere l’idea di una Costituente, assemblea o commissione che sia, allora la sua ascesa al Quirinale si caricherebbe di un significato ben più profondo del vigilare autorevolmente sul Paese. Significherebbe dotarsi dello strumento più potente di cambiamento, quello propedeutico ad ogni altro tipo di ammodernamento – politico, economico, sociale, culturale – del sistema Italia. Questo significherebbe indirizzarci verso un regime di tipo presidenziale?  Probabilmente sì.

 

Vi confesso che io ho sempre dubitato che quel sistema istituzionale sia troppo adatto agli italiani per essere adatto all’Italia. Ma con altrettanta franchezza vi dico che quasi tre decenni di declino mi hanno spinto a riflettere sulla necessità di produrre una discontinuità radicale da imprimere al nostro sistema politico e alla nostra architettura istituzionale. E l’avvento di Draghi, che come ho già detto incarna il modello De Gaulle, mi ha definitivamente indotto a mettere in discussione la mia vecchia convinzione che fosse meglio tenersi alla larga dal presidenzialismo. Si tratta naturalmente di vedere quale presidenzialismo – ce ne vuole uno “soft”, e quello di tipo francese appare il più consono – tuttavia è venuto il momento di discuterne. A patto che lo si faccia nella sede più appropriata, che è appunto quella di un organismo diverso dal Parlamento, deputato a riscrivere – senza reticenze ma neppure senza la fregola del cambiamento per il cambiamento – la nostra Carta fondante.

 

Ecco, se Mattarella facesse il sacrificio di restare al suo posto fino alla fine della legislatura, e se Draghi andasse al suo posto nel 2023 dopo aver realizzato, o almeno avviato, i lavori di revisione costituzionale di cui abbisogniamo, allora sì che saremo nelle condizioni di fermare il declino, invertire la rotta e costruire finalmente un paese moderno e civile.
 

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