di Giuseppe Lalli
L’AQUILA – Si è tenuto il 19 ottobre, all’Aquila, nell’Auditorium del castello, un convegno commemorativo della figura di Achille Accili (Acciano 1921 – Roma, 2007) in occasione della ricorrenza dei cento anni dalla nascita. Gli interventi sono stati tutti intonati, la partecipazione del pubblico è stata generosa e a tratti perfino commossa. Hanno ricordato il Senatore Accili il sindaco di Acciano Fabio Camilli, la figlia Maria Assunta Accili, già Ambasciatore d’Italia, Edoardo Alesse, Rettore dell’Università dell’Aquila, il giornalista e scrittore Goffredo Palmerini, il Consigliere regionale Americo Di Benedetto, già sindaco di Acciano, e il giornalista Giampaolo Arduini, che ha coordinato gli interventi.
Maestro elementare nel dopoguerra, Accili fu dapprima sindaco del suo paese, Acciano, poi segretario provinciale del suo partito, la Democrazia Cristiana, e infine Senatore della Repubblica ininterrottamente per circa vent’anni, dal 1968 al 1987: una vita spesa al servizio della famiglia e del territorio aquilano (suo fu, tra i tanti assunti, l’impegno a favore della statalizzazione dell’università del capoluogo abruzzese).
Io che scrivo questa nota non ho conosciuto personalmente l’illustre politico, e tuttavia ne conservo due ricordi indelebili nella mente, che forse illustrano la sua personalità al pari di un lungo articolo. Negli anni ‘70, nell’Aula Magna dell’Università dell’Aquila, nello storico “Palazzo Rivera”, il movimento giovanile aquilano della Democrazia Cristiana aveva organizzato un convegno (non ricordo più il tema dell’incontro) che vedeva la presenza in veste di qualificati relatori molte personalità della cultura cittadina e, tra di esse, quella del senatore Accili.
Il dibattito che ne seguì fu caratterizzato da una vivace polemica da parte di uno studente di opposta estrazione politica, che, tra l’altro, riferendosi al noto parlamentare aquilano, lo chiamò, con ostentata ironia, “l’eterno senatore”, come se in un sistema di democrazia liberale essere rieletti in un ramo del Parlamento fosse da considerarsi una colpa. Ciò che più mi colpì in quella circostanza fu l’assoluta imperturbabilità di Accili, il quale, alla fine della manifestazione, si intrattenne a lungo per spiegare ai dissidenti la sua posizione, e lo fece con grande pacatezza e signorilità, e con la pazienza, lui insegnante elementare, che doveva aver esercitato per lunghi anni tra i banchi di scuola. Ripensando alla scena, il senatore, con gli occhiali, la barba ben rasata e il viso rotondetto, aveva tutta l’aria di un direttore didattico, o di un moderno maestro Perboni di deamicisiana memoria.
L’altro ricordo è più serio riguardo al contenuto. Si era ai primi di maggio del 1974, al tempo del referendum sul divorzio. Gli elettori erano chiamati a pronunciarsi con un ‘Si’ o con un ‘No’ all’abrogazione della legge “Baslini-Fortuna” (cosiddetta dal nome dei suoi promotori), che istituiva nel nostro Paese la possibilità dello scioglimento del matrimonio. Lo scrivente, che al tempo non aveva ancora i ventun anni previsti dalla legge per votare ma che già si interessava di politica, era un giovane cattolico progressista e un po’ impaziente, ciò che lo portava ad aver dubbi sull’abrogazione della legge sul divorzio.
Dio volle che il senatore Accili venisse ad Assergi, paese dello scrivente, e intrattenesse la gente con un comizio, come usava ancora all’epoca. Le parole del politico di Acciano ancora mi risuonano nella mente. Disse, con ineccepibile argomentazione, che quello che i fautori della legge chiamavano “piccolo divorzio” in realtà avrebbe in breve tempo aperto la strada ad un “grande divorzio”. Aggiunse poi, con un tono di voce dalla quale traspariva una passione appena temperata da un lungo esercizio all’autocontrollo, che al di là di alcune situazioni che la legge poteva sanare, il divorzio avrebbe “allargato le maglie del tessuto sociale” – disse proprio così, accompagnando la frase con appropriato gesto delle mani – compromettendo quell’istituto familiare che era da considerare la cellula fondamentale di detto tessuto.
Parole forti e chiare e, in ordine alle previsioni, persino profetiche. Fu questa una lezione che mi tolse ogni dubbio e che non ho più dimenticato, impartita nel tempo in cui la politica sapeva ancora vestire i panni della pedagogia. Achille Accili, uomo politico che sapeva rapportarsi con il popolo, inteso, secondo la visione di Sturzo, nelle sue varie sfaccettature, è da considerare uno degli ultimi rampolli di quella nobile pianta politica che è stata il popolarismo cattolico, la più originale cultura politica del Novecento, che a differenza di altre ispirazioni ideali, non ha dovuto recidere le sue radici, ma solo riscoprirle; una cultura politica che una classe dirigente poco avveduta ha troppo frettolosamente archiviato.
Nel sentire rievocare la figura di questo politico abruzzese, sono stato attraversato per un momento da un “pensiero forte”, evocato dalle parole di Giovanni Paolo II, quel papa santo che ha cambiato il mondo. La frase suona pressappoco così: “Gli uomini non saranno capaci di coltivare i loro interessi di lunga gittata se non alzeranno lo sguardo verso il cielo dei valori e non pregheranno Dio affinché intinga il suo dito nella loro storia”. Anche a questo servono le commemorazioni.