La Memoria, Segre e Benigni.
Di Pasquale D’Aiuto. Avvocato. Ventotto gennaio venti ventidue
Non amo Roberto Benigni.
Ciò detto, trovai “La vita è bella” una meraviglia.
Un capolavoro originalissimo, con il limite naturale di essere destinato a sole due categorie di persone:
- Coloro che sanno la disumanità dei lager e del nazismo (e del fascismo, ahinoi) e non hanno bisogno di ripetizioni di storia;
- Coloro che non hanno vissuto sulla propria pelle la spietata persecuzione.
Tutte le altre non possono capirlo appieno o, comunque, apprezzarlo. Di prima, perché non è con quella pellicola che si può rendere tangibile il terrore inconcepibile, letteralmente diabolico di quegli anni a chi non lo conosca; di poi – e qui penso a Liliana Segre ed alle sue dichiarazioni in merito al film – perché, del tutto comprensibilmente, le vittime non riconoscono quella perfezione del Male, che le ha segnate per sempre, in un’opera del genere.
E allora, perché Benigni usa l’ironia per trattare un argomento che è, forse, il primo della categoria dell’indicibile? Perché il registro drammatico non avrebbe aggiunto nulla: abbiamo, per fortuna, svariate testimonianze, con buona ragione di chi tenta stoltamente di sminuire.
Ma, a mio avviso, soprattutto perché l’ironia, se non addirittura ridere, è una capacità tutta umana, forse la più elevata, e come tale segna la più profonda cesura con l’orrendo disumano dei campi di sterminio, relegandolo a qualcosa di talmente assurdo da non appartenerci, come specie.
Tutto questo, senza negare affatto che, pure, proprio degli esseri umani – tanti, tantissimi esseri umani – siano stati capaci di ciò. Non una sola volta nella storia… e non l’ultima, temo. E mi riferisco a qualsiasi popolo.
Il giudizio definitivo su quella memoria infame, il più coraggioso ma anche il più efficace, l’ha emesso Roberto Benigni.
E lo ha fatto invocando lacrime di gioia, dolore, tenerezza e… risate.