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PREMIO MORLOTTI – LEO GALLERIES
MONZA
Dal 19 febbraio
I PORTATORI D’ANIMA
di Lucia Pescador
a cura di
Simona Bartolena e Giorgio Seveso

L. Pescador – Il giardino delle Esperidi 2016 t.m su pagine di libro
LEO GALLERIES –  MONZA
Dal 19 febbraio
I PORTATORI D’ANIMA
di Lucia Pescador
a cura di Simona Bartolena e Giorgio Seveso

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Monza 02 Febbraio 2022

Dal 19 febbraio
I PORTATORI D’ANIMA
di Lucia Pescador
a cura di Simona Bartolena e Giorgio Seveso

Leogalleries ospita la personale di Lucia Pescador, vincitrice del premio alla carriera della diciassettesima edizione del Premio Morlotti-Imbersago.

Classe 1943, formatasi a Brera (dove si diploma con Guido Ballo, con una tesi su Bepi Romagnoni), Lucia Pescador ha ancora oggi molto da dire: vivace e intelligente, non ha mai smesso di cercare, di raccogliere, di osservare, di interpretare e, soprattutto, di trasformare in arte e poesia ogni aspetto della vita, a partire dalla sua straordinaria casa-atelier, sorta di personale wunderkammer che ben rispecchia il carattere e le peculiarità della ricerca dell’artista.

Elemento fondante del lavoro di Lucia Pescador è la memoria: da sempre cataloga, archivia, inventaria. La memoria la “prende totalmente”, afferma lei stessa nell’intervista raccolta da Giorgio Seveso e Simona Bartolena proprio in occasione del premio. “La memoria della cultura, soprattutto quella del Novecento, alta e bassa”, “che va dai fumetti di Topolino alla storia di Pinocchio alle opere di Kazimir Malevic o alla Pop art”.

 

Di questi stralci di cultura, la Pescador trae copie e d’après, spesso realizzati usando la mano sinistra, per costringersi a non riprodurre con troppa facilità, per evitare di cadere nella sterile imitazione e raggiungere, invece, una personale rivisitazione della sostanza dell’opera da cui è partita.

 

Ed ecco i grandi maestri – da Malevich a Baselitz, da Kiefer a Beuys – diventare oggetto della sua attenzione e trasformarsi in Lucia Pescador, perfettamente metabolizzati e tradotti da un’artista dal tocco poetico, capace di racchiudere un intero racconto in un semplice e rapido segno.

 

Ma la ricerca di Lucia Pescador va oltre a questo rapporto strettissimo (e necessario) con i grandi del passato, con i “portatori d’anima”, come ama definirli lei; nelle opere dell’artista scorre l’esistenza nelle sue più diverse manifestazioni: vasi, zuccheriere, alberi, foglie, montagne, visioni immaginarie… Quello della Pescador è un universo perduto tra occidente e oriente raccontato in un inventario visivo tanto poetico quanto elegante e prezioso, frutto di decenni di lavoro paziente ma mai autorenferenziale, silenzioso e quieto, venato di una gioia sottile: la gioia di un bambino che impara sempre qualcosa di nuovo, l’incanto della scoperta e della sua condivisione.

La mostra presenta composizioni di opere su carta di piccole dimensioni che caratterizzano lo spirito della ricerca dell’artista, il suo modo di procedere per appunti, tracce, segni, riflessioni, intuizioni, traducendoli in immagini essenziali, armoniose e dense di significato, monumentali anche quando realizzate su supporti di misure ridotte.

 

Un lavoro di cui si coglie il senso più profondo proprio quando presentato nella forma di sequenze di immagini che ben testimoniano la stratificazione della memoria che la Pescador ha sempre voluto raccontare. “Sono come figurine del mondo”, spiega l’artista, “un album di figurine a volte in senso drammatico, a volte in senso giocoso”.

E poi anche opere di più ampio formato, che traducono nelle grandi dimensioni il medesimo afflato e le stesse intenzioni dei piccoli appunti su carta, rivelando la straordinaria capacità dell’artista di costruire composizioni equilibrate, rigorose e oggettive eppure sempre poetiche, piene di immaginazione e di una meravigliosa libertà espressiva.

 

LE
Dal 19 febbraio al 12 marzo 2022
Inaugurazione: sabato 19 febbraio 2022, ore 17,00/19,00
Orario di apertura: mar-sab 10,00/13,00 – 15,00/19,00

 

I PORTATORI D’ANIMA

Intervista a Lucia Pescador, Premio alla Carriera 2021

a cura di Giorgio Seveso e Simona Bartolena

 

Oggi, con un anno di ritardo dovuto alla pandemia, siamo qui per consegnarti il nostro Premio alla Carriera che, tra l’altro, viene finalmente assegnato per la prima volta a una donna. La volta scorsa era toccato a Mino Ceretti…

Mi viene in mente – ripensando a Ceretti, al quale non da ieri va la mia ammirazione – che proprio lui tanti anni fa riuscì a stupirmi non poco. Eravamo a Capo d’Orlando per una iniziativa artistica, tutto un gruppo di pittori tra cui molti milanesi, e per l’opera che stavo realizzando, che era una sorta di giara di terracotta, avevo bisogno di scrivere la parola “vaso” in greco antico. Ero ancora un po’ intimidita dalla situazione, io ragazza di provincia arrivata da poco a Milano da Voghera per andare al liceo artistico e poi a Brera, in mezzo ad artisti più grandi ed esperti di me. Ora, avevo chiesto un po’ a tutti in giro – allora non c’era internet a cui ricorrere – ma senza successo. Fu proprio Mino che mi suggerì subito e senza esitazioni la parola corretta, interessandosi anche con molta disponibilità e curiosità al mio lavoro.

A Milano, lui e tutto l’ambiente che fu poi chiamato quello del Realismo esistenziale mi colpivano molto. Mi sembravano i più interessanti, tanto è vero che poi, con Guido Ballo, ho fatto a Brera la mia tesi proprio su Bepi Romagnoni con molto materiale e tutta un’intervista al loro gruppo. Del resto proprio Ballo mi diede un bel voto per la tesi perché ero riuscita a fotografare centinaia e centinaia di disegni di Romagnoni che stavano presso la Galleria Solaria.
Devo dire che sono davvero onorata di essere la prima donna artista a ricevere il vostro Premio. Oggi vedo che le cose stanno davvero cambiando, ma quando ho iniziato a frequentare l’ambiente artistico milanese, si era appunto alla metà degli anni sessanta, la situazione era molto diversa e si faceva molta più fatica a farsi accettare e riconoscere da galleristi, critica, pubblico e persino dai colleghi.

 

Ci troviamo a parlare in questa tua casa-atelier, una sorta di fittissima “camera delle meraviglie” stracolma di mille oggetti, opere, fogli, immagini e piante più diverse. C’è un rapporto tra il tuo modo di lavorare e l’aspetto così gremito degli spazi in cui vivi?

Certo. Sono una collezionista bulimica, e la mia casa è diventata davvero negli anni una Wunderkammer fitta fitta di ritrovamenti e scoperte. Se una cosa mi incuriosisce o mi interessa per qualche suo aspetto la raccolgo e la metto da parte, la disegno, la copio. Entra nel mio panorama. Forse da qui viene il bisogno di catalogare e archiviare – vedi per esempio il mio lavoro senza fine degli “Inventari del novecento con la mano sinistra” – per avere memoria delle cose che mi circondano. Ecco, proprio la memoria è uno dei dati della vita che più mi attira, mi coinvolge e mi occupa.

Per conoscerti meglio e, diciamo così, per inquadrarti da un punto di vista della poetica generale, ti consideri come pittrice più vicina a un’attenzione prevalente verso i contenuti o verso le forme?

Vi rispondo subito: verso la memoria. Come dicevo, è qualcosa che mi prende totalmente e che percorre ogni ragione del mio lavoro. La memoria della cultura, soprattutto quella del novecento appunto, alta e bassa e che dunque va, per dire, dai fumetti di Topolino alla storia di Pinocchio alle opere di Kazimir Malevich o alla Popart. Ecco, io raccolgo memoria di questi aspetti, faccio inventario, catalogazione. Insomma faccio registrazioni e collezioni che sono essenzialmente copie con la mano sinistra, raccolte di copie e d’après.
Anche perché “inventario” è anche un po’ inventare…

Perché con la mano sinistra? Perché Malevich?

Copiare vuol dire anche ricostruire, e copiare con la mano sinistra, per me che non sono mancina, è stato ed è ancora un modo per scostarsi dall’imitazione pur seguendo la sostanza, un modo per entrare dentro, per interpretare.

Per la carità, non è che copio soltanto… Nelle immagini c’è di tutto, cose che vedo e cose che penso. Guardate già ai titoli dei miei lavori, che nascono su una parete di 4 metri per 3 e si sviluppano a temi e serie. Il palcoscenico è un interno dove la luce viene dal lato destro e sulla parete scorre il tempo, dall’ombra alla luce. Ci potete trovare, per esempio, i Legni blu, Suoni e semi, Vasi e alberi, Il luogo della fata, l’Erbario d’oriente e l’Erbario d’autunno e via via negli anni le Biodiversità, le Montagne, il Giardino delle Esperidi eccetera eccetera. Sono come dei cori, delle sequenze più diverse, allestimenti possibili dove io volo a vista, dove capisco guardando.
Sono come le figurine del mondo, un album di figurine a volte in senso drammatico, a volte in senso giocoso.
Disegno quasi sempre sopra qualcos’altro: pellicole, carta da musica, pagine di libro, registri, quaderni. È un modo per dire che la memoria è una stratificazione. È tante cose insieme.
Di Malevich, che già conoscevo e che è il mio grande amore, ho visto una volta un librone enorme al bookshop delle Stelline a Milano. Sono rimasta incantata, me lo sono comprato e ho cominciato a copiarlo, naturalmente con la mano sinistra, come un bambino che si impadronisce di qualcosa. Di lì sono cominciati gli Inventari.

Oltre a Malevich e alle avanguardie russe, chi sono gli artisti che ti hanno interessato?

Baselitz, Kiefer, Richter, Beuys ad esempio. Per me sono “portatori d’anima”, nel senso che le loro cose mi sembrano dense di memoria e di senso, sono nelle mie corde, mi toccano. Le loro opere mostrano di avere un’anima dentro, e sono capaci di fartela sentire. Per questo mi piace copiarli, mi piace rifarli a modo mio.
Lo so che è un discorso un po’ ambiguo ma se mi emoziono intensamente davanti a un bel paesaggio faccio bene a ritrarlo, a copiarlo, a farlo mio dentro a una mia immagine. Perché non posso fare lo stesso con un’opera di un artista che mi emoziona altrettanto fortemente?
Ad ogni modo sono molti gli artisti importanti, ma direi che più dell’arte è tutta la cultura del novecento che mi interessa, mi emoziona e mi prende.

E le donne nell’ambiente artistico?

Ora le cose sono molto cambiate, soprattutto per le giovani, anche se ci sono ancora parecchi condizionamenti. Ma ricordo quando ero agli inizi che la situazione, per le artiste donne, era difficile, era chiusa, povera di prospettive e di opportunità. Le donne non avevano moneta di scambio, non avevano potere, e in un ambiente come il nostro, dove tutto va in qualche modo per amicizia – tu fai un favore a me e io faccio un favore a te – le donne avevano nulle o pochissime possibilità di agire e farsi valere. Anch’io avevo molta difficoltà. Che vantaggio potevano trovare i miei colleghi a chiamarmi, a farmi collaborare con loro, a invitarmi alle iniziative? Nessuno, perché io senza potere non avevo altri agganci, non avevo nulla con cui ricambiare, nulla da restituire. Ma oggi, appunto, le cose sono cambiate perché le artiste sono molto solidali tra loro e fanno gruppo, magari qualche volta perfino troppo. Rischiando qualche volta di autolimitarsi e di rinchiudersi in una specie di ghetto. Aveva senso quando non c’era lo stesso rispetto e lo stesso riconoscimento per il lavoro femminile da parte di un ambiente artistico quasi esclusivamente maschile, ma ora – ripeto – è diverso.

Ora che hai l’età per ricevere un premio alla carriera, che rapporto hai con i giovani artisti?

Beh, intanto ho insegnato per molti e molti anni al Liceo artistico, soprattutto qui a Milano al Boccioni. E quindi sono rimasta in costante contatto con i loro modi di pensare, con le loro vicende culturali, con la varietà dei loro gusti e dei loro atteggiamenti. È bello vedere, tra quelli che cominciano a frequentare non pensando che l’artistico sia un liceo meno impegnativo degli altri ma proprio per una loro vocazione, per una scelta confermata, come a poco a poco si accende in loro una vera passione per quello che imparano e che fanno.
La passione è una cosa importantissima, è forse la cosa più importante e decisiva dentro i nostri sentimenti, ti aiuta a vivere. E non soltanto per i giovani. Che sia la pittura, la musica, lo scrivere, ma anche lo sport o altre cose, avere una passione è fondamentale.
Forse da me gli allievi non imparavano tanto, ma ciò che credo e spero è di avere operato per accendere in loro, appunto, una passione autentica, una passione del fare. Passione nel mettere giù un colore sentito, nel disegnare la forma più adatta, nel trovare il segno giusto per il loro sentimento.
Del resto la passione è un sentimento che distingue soprattutto i giovani e, in particolare, specialmente i bambini. Io, per esempio, pesco molto dall’infanzia nel mio lavoro, la sento molto, è il momento più autentico e più intensamente libero dell’esperienza, e ci torno volentieri.
Potrei dire anch’io come Picasso che ci ho messo una vita a disegnare come i bambini!

 

© 2022 PRESSPARTNERS FRANCESCO GATTUSO

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