Ciò che viene definito “storia” è al meglio una cronaca aggiustata in funzione di soddisfare le esigenze dei potenti coinvolti negli eventi descritti.. oppure rispecchia le posizioni ideologiche dei narratori, che debbono in ogni caso far sempre i conti con il potere in carica.. Lo vediamo anche nelle cronache attuali, quelle dei giornali, radio e tv, in cui la narrazione dei fatti è sempre aggiustata al fine di soddisfare un “potere” od un “idea”…
Secondo la teoria di Albert Einstein si può dedurre che una forma che si manifesta nella spazio è semplice durata nel tempo. Come dire che la proiezione energetica della forma è individuabile soltanto in rapporto con la sua prosecutio temporale. Da qui l’idea che ogni cosa ed ogni accadimento sono semplici proiezioni spazio temporali, e pertanto “immaginarie”, ovvero percepibili attraverso la coscienza, che è invero un continuum inscindibile… Solo una coscienza riflessa, quella della mente, è in grado di fermare i fotogrammi nel caotico flusso energetico spaziotemporale rendendo le forme, i fatti, insomma ciò che compone lo svolgimento dell’agire, non solo visibili ma anche consequenziali e sperimentabili sensorialmente.
Nella descrizione degli eventi, definita storia, prevale l’impressione dell’osservatore (come sopra evidenziato), questa è la caratteristica della mente individuale che, percependo attraverso la rete di sue predisposizioni, interpreta ed aggiusta i significati delle azioni vissute o riportate.
A questo punto per conoscere la “verità” occorre rivolgersi alla psicostoria, ovvero alla capacità di lettura della memorizzazione automatica della registrazione contabile non percettibile, presente nell’insieme degli eventi. Per cui se vogliamo conoscere la storia, quella vera, è necessario introdursi nel magazzino akashico della funzione mnemonica vitale, che è presente in forma olografica in ognuno di noi.
Bisogna pescare nell’inconscio, bisogna percepire quello che è presente nella mente universale in forma di traccia mnemonica psico-fisica. Bisogna comprendere gli eventi narrati non solo dal punto di vista del narratore ma di quello dei vari personaggi descritti. Bisogna sprofondare nel mondo archetipale e sapersi riconoscere in ognuno dei “modelli” evocati. Bisogna lasciar andare la ragione e l’analisi per soffermarsi sulla memoria collettiva dalla quale possono così emergere messaggi e intuizioni diverse dalle conclusioni descritte nella storia ufficiale.
Secondo la teoria della “psicostoria” si potrebbe arrivare a ciò attraverso l’analisi memorica residua impressa negli oggetti coinvolti negli eventi.. Ad esempio se volessimo stabilire la verità sui fatti che hanno accompagnato la morte di Gheddafi, pur in assenza del suo cadavere, che ovviamente potrebbe essere il miglior trasmettitore, potremmo utilizzare un qualsiasi oggetto da lui posseduto ed usato in quei momenti fatidici.. la sua pistola d’oro? I suoi stivali? Ma io personalmente non supporto questa visione “fisicista” preferendo quella “psichica” della rielaborazione all’interno della mente, con richiami specifici all’evento, attraverso una specie di trance meditativa, un po’ quel che avviene ai medium durante le sedute spiritiche.
Con questo metodo possono aversi risultati “stravolgenti” rispetto a quelle che sono le opinioni sulle cause degli eventi storici, ad esempio nell’analisi che stabilisce i motivi della caduta dell’impero romano di solito si evidenziano sia la decadenza dei costumi, sia la calata dei barbari ma non si tiene mai conto delle conseguenze dell’affermazione cristiana, che fu veramente un fatto disgregante e distruttivo della romanità, trasformandola da civiltà politica laica in mera fondazione religiosa.
E qui mi sembra utile fare una piccola disgressione. Dopo la scoperta dei rotoli di Qumran è risultato evidente che gli insegnamenti e le cronache in essi contenuti anticipavano di fatto tutti gli insegnamenti cristiani. Solo che quei rotoli erano di molto antecedenti all’ipotetica nascita di Cristo. Dopo la distruzione di Gerusalemme ad opera di Tito si intensificò la diaspora ebraica (che era già iniziata da tempo immemorabile essendo gli ebrei già presenti in moltissimi luoghi nel mondo). Fra i vari gruppi o sette ebraiche quella degli Esseni era la più spiritualmente qualificata e la meno radicata alle tradizioni rabbiniche.
Gli Esseni perseguivano una filosofia “umanitaria” in cui si prefigurava già un’ideologia “universale” poi continuata dalla chiesa cristiana. Inoltre gli Esseni avevano capito una cosa.. che nella immaginazione scritturale ebraica si continuava a prospettare l’arrivo di un messia, salvatore d’Israele. Ma di messia -o autodefinitisi tali- ne erano passati a decine nei secoli ed il risultato era sempre stato deludente. Per questo gli Esseni decisero -pragmaticamente- che non valeva più la pena di proiettare la venuta del messia in un futuro lontano (cosa che per tutti gli altri ebrei era motivo di speranza e di forza per continuare a mantenere la “fede”) e intuirono anche che non poteva trionfare presso le popolazioni umane una religione che fosse trasmissibile solo per via ereditaria diretta (geneticamente). Decisero perciò due cose che cambiarono radicalmente la loro struttura, allargandola sempre più, e rendendo inoltre la loro “religione” più alla portata di tutti. In primis stabilirono che il messia non doveva venire in futuro ma era già venuto in passato e “descrissero” (come fatto storico) un personaggio (che dal punto di vista delle cronache ufficiali romane non è mai esistito) mettendogli in bocca quegli insegnamenti che facevano parte della loro tradizione (quella dei famosi rotoli del Mar Morto di cui sopra) e soprattutto stabilirono che si potesse aderire alla loro “religione” non solo per censo ma anche per conversione…. Quella fu la causa della frattura definitiva tra la setta essena e l’ebraismo tradizionale e da quella frattura nacque il cristianesimo (che assunse una sua identità specifica a partire dal III secolo d.c o meglio dall’anno 1.000 di Roma).
Questo percorso esemplificativo, che qui vi ho narrato, è il risultato di una “lettura” psicostorica.
Paolo D’Arpini
Treia: l’autore gioca a ping pong