SUL DNEPR HO VISTO PASSARE IL NOSTRO CADAVERE
di Domenico Bilotti
Ho visto con frustrazione l’evolversi delle vicende belliche: le parole che si balbettano sono nulla rispetto a quello che sta accadendo (una guerra). En passant, si resta sbalorditi dalle afflittive frizioni e frazioni che attraversano quel minimo – o massimo – di sinistra politica di ispirazione sociale. Non è un fatto di oggi, la divisione dell’atomo è una chimera in cui si è sempre stati bravi: solo che l’atomo non è mai stato così piccolo e irrilevante. In particolar modo, nel dibattito sul conflitto russo-ucraino, si consuma una esasperante deviazione tra chi, fedele a una vocazione almeno a parole antiatlantica, propugna approfondimenti, riletture, contestazioni, dibattiti forbiti (in cui nulla è detto sui diritti dei cittadini ucraini e russi), e chi si imbeve completamente delle informazioni che apprende qua e là, riporta, rilancia, ritwitta. Nel vuoto di un’Ucraina ridotta in macerie, la sinistra politica anziché riscattarsi rischia di finire ulteriormente travolta dalle rovine. Ci si sceglie compagni di tavola sbagliati, si preferisce interloquire coi più distanti e non coi più vicini. Lo avevamo visto coi vaccini e coi green pass, mescolati nello stesso calderone, riserva di voti per la destra e riserva di dissertazioni per la sinistra. I vaccini, la cui universalizzazione è stata portato storico di tutte le sinistre (dal movimento operaio socialista fino ai movimenti di contestazione tutti fino alla fine degli anni Settanta), degradati a dispositivi del capitalismo. Il green pass, addirittura, innalzato a spazio di divisione tra i buoni e i cattivi, ad apologia dei nuovi strumenti di controllo: forse costoro non sono mai entrati in uno stadio, in una piazza o sulla pagina online del proprio conto in banca, avrebbero compreso i livelli del controllo cosa sono! Peraltro, il green pass è stato regolato in modo imperfetto sin dalla prima ora, strumento per favorire le vaccinazioni senza l’introduzione dell’obbligo e garanzia di reimmissione di guariti e vaccinati come soggetti di mercato e di consumo prepandemici. Ovviamente, i teorici del no al vaccino – e al pass – da sinistra hanno perlopiù bypassato i termini concreti del conflitto, compreso ovviamente lo scarico dei costi della crisi sanitaria sulle fasce più deboli e meno rappresentate. Hanno teorizzato, invece, il nuovo nazismo. Nossignori: se parliamo del paternalismo amichevole che indora forme di sorveglianza ben più penetranti di quello che si dice e si ammetta, il discorso non dovrebbe iniziare dai vaccini, non dovrebbe iniziare dal 2021. Forse bisognerebbe iniziare da quando si è appaltata la possibilità di un discorso di giustizia alle magistrature dei savi, dei titolati, dei perfetti. Nell’inquisizione si tortura per salvare l’anima del torturato: nulla di nuovo.
Sull’Ucraina si sta facendo in fondo lo stesso, e gli inviti a “complessificare”, a considerare l’invadenza d’Occidente verso Est, avvengono mentre ogni giorno muoiono alcune migliaia di persone – come in Siria, in Libia, in Yemen, in Etiopia… e le bombe non sono nemmeno la prima causa di morte.
Se guardiamo alle conseguenze economiche della guerra sull’economia e sulla domanda interne, ormai è cominciato il derby della nuova emergenza. Sarà la base di provvedimenti e misure restrittive, dopo appena pochissimi mesi di interventi statali anticiclici e antidepressivi, e la manna dal cielo per chi parcellizza tutto e si frega le mani a immaginare tele servizi dove chiedere conto della crisi a tutti i settori (dal vino alla benzina, dalle manifatture alle materie prime), senza, ça va sans dire, la minima proposta solutiva. Né produttiva, né umanitaria. Ah già, le rinnovabili, una nuova economia, la solidarietà e fratellanza … una omelia papale elevata a panacea, quando se va bene è fatta di pannicelli caldi.
A volte mi chiedo come si sia arrivati a questa divisione sterile e inutile, a questa diametrale contrapposizione per cui un mondo di idealità e di idee, di discorso civile e pratica sociale, si è scomposto, ricomposto, sue schegge esplodendo sono finite in braccio agli estremi dell’altra parte.
E le cause mi sembrano due. La prima, e più grave, sono i personalismi: blaterare la contestazione, senza sudore di propria forza, è la scorciatoia più semplice. Trovare sempre un nemico e sempre un nemico altrove crea più dipendenza delle droghe per chi è povero di impegno e idee. La seconda, non meno grave, è che questa frammentazione, questo non riconoscersi mai, questo sentirsi più forti solo da contrapposti, ha finito di spolpare l’osso. Di fronte alle chiacchiere massimaliste, al buonismo che cattura i temi del momento o alla superficialità sbraitante di chi invoca palingenesi e “via tutti”, in fondo così intrinsecamente giustizialiste, pensavo di potere essere come il saggio del proverbio cinese che vede al fiume passare il corpo del suo rivale. In una sinistra che ha rinunciato a forgiare l’Europa, a percorrere la riforma giudiziaria, a farsi proposta di nuova soggettività e non cantilena del solito sdegno, sul letto di quel fiume vedo un’intera corrente e rete di pensiero e relazioni umane e sociali. E c’è da sperare e lottare che i petali appassiti siano concime di fiori nuovi.