Taranto celebra il centenario della nascita di Pasolini con un convegno a Palazzo Pantaleo.
Pasolini resta il trasgressore del reale oltre il male e il bene
Pierfranco Bruni
Il Pasolini che ho sempre raccontato non è quello del consueto ragazzi di vita che si fanno la loro vita violenta. Non è quello neppure del cinema. È quello che si chiosa nel pensiero tra il male e il bene.
Uno scrittore, poeta e pensatore tra i pochi interpreti di un Risorgimento delle lingue contaminate che ha trasfigurato la parola in immaginario. È questo il Pasolini che maggiormente mi interessa.
Morto a Ostia il 2 novembre del 1975. Era nato il 5 marzo del 1922 a Bologna. Un personaggio interpretato in una complessità di letture che vanno dalla macchina da presa (l’immagine qui diventa un linguaggio vero e proprio) alla poesia come recupero di una eredità antropologica che ha focalizzato la sua attenzione sulla dimensione di paese, di comunità, di etnia.
Il gioco ad incastro tra metafora, poetica e gioco della realtà ha sempre costituito una rappresentazione sul piano di una teatralità la cui recita non si mischia con la finzione. Pasolini è, forse, l’antipirandellismo pur usando la teatralità non crede alla maschera e si serve del linguaggio per scavare nella coscienza dei popoli che sono il portato di una visione etno – antropologica ben definita che vive le sue voci diversificanti proprio nell’Ottocento.
Basti pensare, oltre alle poesie dedicate agli archetipi di Casarsa, al linguaggio del suo raccontare dei “ragazzi di vita” e di “una vita violenta”. Quel loro linguaggio – lingua, al di là delle storie o dei destini stessi di quella generazione, è un portato antropologico dentro una comunità che intrecciava processi culturali e storici. Il suo rivolgersi alla grecità e alla classicità (si pensi a “Medea”) lo conducono direttamente ad una posizione di recupero della centralità della cultura mediterranea. Così come il suo confrontarsi con la storia cristiana.
C’è un Mediterraneo quasi arcaico sia nella ricostruzione dei paesaggi sia nel “vocalizio” dei dialoghi. Cristo, Giovanni, la Maddalena, Maria sono volti e voci di un Mediterraneo disperso tra Occidente ed Oriente. Il suo San Paolo incompiuto è un pezzo di incontro tra Oriente e Roma. Casarsa stessa ha un portato linguistico storico che ha matrici friulane ma dentro la ricerca delle radici c’è un mondo radicato che è quello contadino ma anche definito nell’esaltazione del valore comunitario del paese. Il concetto della lingua come “passione e ideologia” trasportato nel contesto letterario ha ramificazioni tra le maglie di un profondo regionalismo che significa territorializzazione della parola.
Ecco perché Pasolini reinterpreta il dialetto come modello risorgimentale delle lingue unitarie. In fondo il Pasolini che innova il romanticismo risorgimentale nel decadentismo risorgimentale del Pascoli dei primi testi si interpreta proprio attraverso la lingua, la quale assume la sua particola importanza nello scavo dei territori. Pasolini ha una sua matrice profonda che è quella dell’identità nazionale. Senza la quale non avrebbero senso neppure le stesse parole che il poeta usa nei confronti della generazione che ha costruito il mito del sessantotto.
La sua battaglia antiborghese, il Risorgimento non fu una “restaurazione” borghese perché dentro il Risorgimento c’è quella cultura popolare che trova il suo epicentro nella storia del brigantaggio politico, non è soltanto nei modi e nei fatti. Si definisce nel ruolo della lingua nazionale che ha bisogno delle lingue territoriali. Di quelle lingue romanze che sprigionano il senso di una appartenenza ad una cultura dell’identità.
Da questo punto di vista Pasolini usa una lingua nazionale dentro la lingua di Casarsa, nel caso specifico delle sue poesie scritte in “casarsese”, abbinando forme autctone con delle koinè che si portano un vissuto storico. Il mettere insieme i dialetti con le forme etniche è un dato “rivoluzionario” vissuto dal di dentro del linguaggio. Così come usare parimenti il romanesco, il friulano e i dialetti meridionali nelle varie sfaccettature.
Pasolini, in fondo, innova quel che il Risorgimento delle lingue aveva “romanticizzato” nelle pretese o proposte manzoniane e ancora prima nei dibattiti rinascimentali e nei contributi dati dai vocabolari barocchi. Pasolini recupera, in certo qual modo, la contaminazione barocca filtrandola nei dialetti pre e post unitari all’interno di una conferma di una identità nazionale nella quale l’identità stessa è data dalla accoglienza delle lingue regionali. La sua letteratura è dentro questo processo che, dal punto di vista espressivo, delinea il superamento delle retoriche con il testo “Trasumanar e organizzar” del 1971.
D’altronde Pasolini fa suo il canto popolare che diventa la vera espressione di proposta di una identità condivisa che resta sempre quella italiana. Comprende l’importanza delle contaminazioni e delle culture che per sopravvivere hanno bisogno di identificarsi come modelli meticciati. Anche il suo cinema è strutturato sulle contaminazioni. Sembrerebbe fuorviante discutere di un recupero delle etnie risorgimentali in un sperimentalista come Pasolini. Ma proprio perché è sperimentalista, non accetta l’avanguardia come funzione centralistica, la sua lingua trova le radici più profonde in un Risorgimento delle lingue dopo la non accettazione dei modelli accademici.
Il Risorgimento delle lingue pasoliniane è quello che vive nel canto popolare meridionale. Pasolini è ben consapevole di ciò tanto che il suo viaggio nel Sud assume una dimensione catartica e archetipale proprio nei modelli espressivi.
Il punto focale è proprio questo. Pasolini è sperimentalista perché è lontano dall’accademia e il suo linguaggio si innerva nella costante divisione e frammentazione delle lingue il cui elemento dialettale diventa sistematico sia nelle conversazioni che nel verseggiare. È innovativo. E l’innovazione fa scandalo.
Il modello di rottura tra la trascrizione dell’accademismo e la sperimentazione lo si può tranquillamente leggere nel suo articolo (apparso sul “Corriere della Sera” del 1 febbraio del 1975) dedicato alle lucciole. In questo caso è il termine stesso di “lucciole” che ha una sua consistenza metaforica e linguisticamente appropriata alle varianti di un processo culturale tutto da riconsiderare.
Ma resta il fatto che Pasolini innova la sua lingua partendo proprio da un Risorgimento, forse antiromantico, etnico del modo di porre i linguaggi.
Il suo porre all’attenzione il Pascoli moderno e innovante parte proprio da un presupposto antiaccademico perché vede nel poeta romagnolo l’interprete di una lingua nazionale che codifica le koinè di un territorio contadino e arcaico.
La lingua nazionale pasoliniana nasce in un Risorgimento delle contaminazioni tra tradizione, processi antropologici di matrice popolare e line che portano ad un meticciato tra dialetti, lingue minoritarie ed evoluzione della lingua italiana stessa. È qui che il suo modo di usare la macchina da presa prende consistenza. Non è il realista che mi interessa. Non lascia nulla. È il trasgressore della realtà che si incammina verso la lettura del Paolo profeta attraversando la grecità del mito da Edipo a Medea. Ma è l’incompiutezza del lavoro su Paolo che diventa filo tra la soglia della profezia e il mistero anche oltre il Vangelo di Marco. La sua ricerca mistico – religiosa diventa qui una antropologia metafisica tra il sottosuolo del castigo e del delitto dentro al di là del bene e del male.