CARI ITALIANI, AVETE SBAGLIATO
L’ASTENSIONE AI REFERENDUM IMPEDIRÀ
UNA VERA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA
(TENIAMOCI STRETTA LA CARTABIA)
di Enrico Cisnetto
Sono deluso, molto deluso. Mi capita di rado, visto che difficilmente indulgo alle illusioni. Ma questa volta, di fronte a quel misero e miserevole 20,9% di votanti ai referendum sulla giustizia, mi sono davvero cadute le braccia. Ero andato convintamente a firmare per i sei quesiti (poi diventati cinque per via di una discutibile decisione della Corte Costituzionale) e mi ero battuto, nel mio piccolo, perchè in tanti compiessero il dovere civico del voto e lo facessero segnando cinque volte il Sì. Invece, solo un quinto degli aventi diritto ha esercitato quel diritto-dovere, e peraltro in due quesiti su cinque il No è andato forte, ottenendo circa il 45% dei consensi. Il resto degli italiani – giustizialisti, menefreghisti o sfiduciati che fossero – è rimasto a casa, o ha preferito andare al mare. Sì, la tematica era troppo tecnica, i quesiti astrusi, l’informazione è stata scarsa per non dire nulla, la campagna referendaria moscia. Tutto vero. Si può anche discutere del referendum abrogativo in sé, che solo una volta dal 1995 ha raggiunto il quorum: relativamente poche le firme necessarie per promuoverlo, troppo alta (o da abolire) la soglia dei votanti da raggiungere. Ma tutto questo non basta a giustificare un disinteresse come quello di domenica scorsa: in più di 70 consultazioni referendarie di storia repubblicana mai si era raggiunto un così basso livello di affluenza. Siamo ai minimi storici. E, d’altra parte, non è certo consolante che nella stessa giornata la percentuale dei votanti alle elezioni amministrative che toccavano un quinto dell’elettorato totale, il numero dei partecipanti sia rimasto sotto il 55%. Guardate che oltre il 45% di astensioni è da allarme rosso per la democrazia. Tanto più che si dovevano scegliere dei sindaci e delle amministrazioni comunali, cioè quel tipo di rappresentanti che – ci dicono da anni sondaggisti e politologi in coro – il popolo ama di più, tanto da anni gira l’evocazione di un “Sindaco d’Italia” per guidare il Paese. Se poi aggiungiamo casi come quello di Palermo, dove una cinquantina di presidenti di seggio non si sono presentati perchè hanno preferito andare allo stadio a seguire la squadra di calcio della città (che si giocava la risalita in serie B, manco fosse stato lo scudetto), viene da chiedersi cosa resti del diritto di voto.
Così le analisi del giorno dopo sulla debacle di Conte, la crisi di Salvini, il consolidamento della forza di Giorgia Meloni, il “campo largo” di Letta che è diventato un “camposanto”, e i riflessi di tutto questo sul governo Draghi, appaiono fondate, per carità – e, anzi, speriamo di leggere in esse i prodromi di forti cambiamenti del sistema politico a trazione populista uscito dalle urne del 2018, in vista delle prossime elezioni politiche – ma alla fine risultano un po’ astrali se si considera che una nazione così come una città, grande o piccola che sia, non si governano avendo con sé solo delle minoranze. Chi vince è legittimato dai meccanismi elettorali, non dalla forza della rappresentanza, e state certi che prima o poi quel deficit di consenso lo si paga. Prendete il caso di chi domenica scorsa è riuscito ad essere eletto sindaco al primo turno: pur essendo la situazione più virtuosa (e infatti è rara perchè prevalgono i casi di ballottaggio) costoro indossano la fascia tricolore in virtù del voto favorevole di circa un quarto dell’elettorato, considerato che la metà non ha votato e tra coloro che sono andati ai seggi, un po’ più della metà li ha votati. Figuriamoci se poi ci mettiamo a calcolare la dote di consensi con cui i parlamentari entrano alla Camera e al Senato, e quindi della forza che le “maggioranze” parlamentari assegnano ai governi.
Tornando ai referendum sulla giustizia, si tratta di una grande occasione mancata. Che rischia di lasciare irrisolte per l’eternità le mille storture della cattiva giustizia, dal disequilibrio tra politica e magistratura allo scandalo della carcerazione preventiva usata come metodo d’indagine giudiziaria – altrimenti come si spiega che oltre un terzo delle persone attualmente detenute nelle nostre (orribili) prigioni, sono in attesa di giudizio? – dalla degenerazione corporativa della rappresentanza dei magistrati alla lottizzazione dei posti nel Csm e il suo conseguente malfunzionamento, dalle indagini accompagnate da clamore mediatico tenute aperte all’infinito per poi finire nel nulla alla intollerabile quantità di condanne rivelatesi ingiuste e ribaltate nel secondo o terzo grado di giudizio, ma molto tempo dopo e quando ormai la riprovazione morale e le conseguenze pratiche hanno già lasciato il loro indelebile segno. È un peccato che l’assoluzione piena del padre di Maria Elena Boschi – un caso dove lo sputtanamento manettaro ha raggiunto i massimi – sia arrivata solo dopo il voto referendario, magari avrebbe svegliato qualche coscienza in più. O che la ricorrenza dell’arresto di Enzo Tortora – fu ammanettato come un delinquente qualunque il 17 giugno 1983, aprendo la stagione della malagiustizia italiana – sia anch’essa tardiva. Magari anche il ricordo di quella vicenda avrebbe aiutato.
Sta di fatto che l’obiettivo che avevo segnalato come utile e possibile, non è stato raggiunto. Chi mi ha letto ricorderà il mio ragionamento: non vi perdete nei meandri dei singoli quesiti, non vi fate spaventare dai loro tecnicismi, non ne vale la pena. Dovete solo rispondere a voi stessi a questa semplice domanda: la giustizia in Italia è complessivamente gestita bene, e non merita che i legislatori ci debbano mettere mano, o è definibile, come io credo, “malagiustizia” e abbisogna di una riforma strutturale? Se sarete più inclini – per conoscenza personale, per esperienza vissuta da vicino o semplicemente per quanto vi è capitato di osservare e capire – a scegliere la seconda delle due possibili risposte, allora dovete sapere che non saranno le specifiche abrogazioni di leggi che con i referendum si andranno a produrre a darvi ciò che cercate, ma sarà la forza della risposta dell’elettorato creare, o meno, le condizioni politiche perché il legislatore sia indotto a intervenire. Per questo era relativamente importante che venisse raggiunto il quorum. La cosa che davvero contava era la forza del messaggio che gli italiani avrebbero potuto dare ai partiti, al Governo e al Parlamento. Ma ci voleva un segnale forte per indurre a cambiare registro coloro i quali fino a quel momento avevano messo la testa sotto la sabbia, per ignavia o timore di ritorsioni, o peggio perché ideologicamente succubi della magistratura (o meglio, di quella parte della magistratura che pur essendo minoritaria prevale sulla maggioranza silenziosa, forgiando la mentalità collettiva e imponendo regole di comportamento). E quel segnale non è arrivato, anzi.
Sia chiaro, apprezzo coloro che ritengono che 10 milioni di italiani che hanno scelto di votare per cambiare la Giustizia siano pur sempre una buona base da cui partire. Ma noi avevamo bisogno di portare a compimento la battaglia contro il giustizialismo, non di iniziarla. È dall’inizio degli anni Novanta che è stato rotto l’equilibrio costituzionalmente dettato dalla separazione dei poteri, e tre decenni dopo è bastato che una ministra prudente come Marta Cartabia – peraltro di un governo di larghe intese, che come tale dovrebbe essere maggiormente predisposto a rompere vecchi tabù – provasse a mettere mano a ciò che non va per scatenare l’iradiddio e costringerla a partorire una mediazione che come tutti i compromessi faticosi non scontenta e non soddisfa del tutto nessuno. Ecco, il fatto che la riforma Cartabia – considerabile un punto di partenza, e non di arrivo – sia passata faticosamente al Senato senza un ben che minimo miglioramento dopo l’esito dei referendum, che dovevano essere la chiave di volta per farle fare un salto di qualità e incisività, è la plastica dimostrazione che la battaglia per una organica e coraggiosa riforma è persa. Al Parlamento non è parso vero che dalle urne non sia arrivato quel segnale che i riformisti volevano. Ed è inutile che ci raccontiamo balle: su tutto ciò che serve per riformare la (mala)giustizia è stata messa una pietra tombale che chissà tra quanto tempo potrà essere rimossa.
Ora, possiamo dare la colpa ai Radicali, sostenendo che hanno forzato la mano in favore di uno strumento come il referendum abrogativo che mal si presta per questo genere di battaglie. O, con più ragioni, puntare il dito contro Salvini, che prima ha strumentalmente cavalcato la raccolta delle firme e poi è sparito ritenendo che elettoralmente il gioco non valesse la candela. O, ancora, tirare le orecchie a Letta e Meloni, che potevano far loro questa battaglia e invece si sono rifugiati in un atteggiamento di micragnosa lontananza dal tema. Ma che questa fosse la cifra della nostra classe politica era noto. Proprio per questo ci appariva giusta e necessaria – pur con tutti suoi difetti intrinseci – un’iniziativa popolare, di pressione e spinta. Invece gli italiani sono mancati all’appuntamento. Neppure il preventivo avvertimento di una altissima figura come Sabino Cassese (“questa giustizia è a pezzi, chi si astiene è complice”) è servito a scuoterli. Io avevo creduto che il conclamato fallimento della scelta fatta tre decenni fa, quando di fronte al decadimento della politica si pensò che la soluzione fosse un bel repulisti prodotto dalla magistratura, avesse indotto la maggioranza degli italiani – magari silenziosa, ma pur sempre maggioranza – a battere un colpo.
Invece, non è servito constatare che quella “rivoluzione” ha prodotto un sistema politico bacato, un ceto politico mediocre e una casta di magistrati che il caso Palamara, se non fossero bastati Di Pietro e Davigo, si è incaricato di farci conoscere. Il paradigma, che credevo si fosse rovesciato, è rimasto a metà, appeso. La magistratura ha sì perso credibilità, come la politica e le istituzioni, ma questa sommatoria ha prodotto disaffezione, disillusione, scetticismo, non desiderio di cambiamento. Gli italiani non si sono spaventati neppure per il fatto che, con il Covid, la cultura giustizialista si sia saldata tanto con quella negazionista e anti-scientifica che con quella del “no a tutto” portando un contributo rilevante al declino socio-economico e cultural-morale del Paese. Peccato, questo è il momento dei cambiamenti epocali, come dimostra la guerra alle porte di casa. Far prevalere l’indifferenza, e di conseguenza l’astensionismo, è il miglior modo per farsi del male.