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CONTE-DRAGHI, MEGLIO LA ROTTURA

PER LIBERARCI DEFINITIVAMENTE DEI 5STELLE

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ED EVITARE CATTIVI COMPROMESSI

SE IL PD DI LETTA AIUTA, SI PUÒ FARE

SENZA PASSARE DALLA CRISI DI GOVERNO
di Enrico Cisnetto

 

Peccato. Come era ampiamente prevedibile e previsto, il penultimatum di Giuseppe Conte verso Mario Draghi è rimasto tale e non si è tradotto in alcun atto di sfiducia verso il Governo, neppure in termini di “appoggio esterno” (una barocca formula d’antan che, fosse stata usata da quelli che volevano “aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno”, sarebbe stata motivo di godimento…). Ora che il pericolo è scampato quasi tutti tirano un sospiro di sollievo. Io no. Anzi, confesso: tifavo per la crisi. E considero una disdetta che non sia arrivata. Perché se per una volta l’avvocato del popolo avesse fatto sul serio, anziché recitare penosamente la parte del cane che abbia e non morde, avremmo potuto averne più di un beneficio. Vado a spiegarmi.

 

Il primo beneficio sarebbe stato che i 5stelle, o meglio ciò che ne resta dopo la fuoruscita di Luigi Di Maio e di un largo gruppo di parlamentari, dividendosi tra governisti e nostalgici dell’opposizione, avrebbero subito una nuova emorragia, frantumandosi definitivamente. Chi mi segue sa che auspico e in qualche modo prevedo questo destino fin da prima del successo elettorale del 2018 e a maggior ragione nei tempi seguenti, convinto della sua ineluttabilità. Ma ovviamente, ogni passaggio che ne accelera i tempi è il benvenuto. A tutto vantaggio dell’evoluzione del sistema politico, da tempo bloccato, e quindi di un Paese che ha bisogno di entrare davvero nella Terza Repubblica. Cosa che sarebbe stata agevolata anche da un secondo beneficio che avremmo avuto da una scelta di rottura di Conte. Essa, infatti, avrebbe probabilmente dato a Enrico Letta il coraggio, che fin qui ha mostrato di non avere, di rompere l’insano connubio con i grillini e tornare finalmente a fare politica a tutto campo (non largo). Invece, il segretario Pd aveva subordinato la separazione da Conte al gesto estremo del medesimo. Non essendo arrivata la rottura, si è limitato a brontolare, dando l’impressione di essere un po’ come quel professore di poco polso che chiede ai suoi allievi di non fare casino in classe ottenendone rumorose pernacchie.

 

Ma se queste due buone ragioni che mi avevano indotto a sperare nell’apertura della crisi, pur non credendola minimamente probabile, sono di natura più politica, la terza riguarda direttamente il Governo e la sua capacità di affrontare i tanti problemi, anche di natura epocale, che il Paese ha di fronte. Contrariamente a quanto detto da Draghi, l’eventuale abbandono da parte dei 5stelle non avrebbe messo in crisi il Governo fino al punto da costringerlo ad andare a casa e con ciò chiudere anticipatamente la legislatura. Non ce ne sarebbe stato motivo sotto il profilo numerico, visto che non sarebbe di certo mancata la maggioranza, a maggior ragione se parte del già decimato gruppo parlamentare pentastellato si fosse smarcata da Conte. Né ci sarebbero state ragioni di natura politica, considerato che il programma del Governo, depurandosi di molte scorie populiste sia in politica estera che in politica economica e sociale, avrebbe trovato giovamento dallo smarcamento grillino. Certo, Draghi e Letta – davvero poco opportunamente – avevano annunciato che all’attuale assetto, se modificato, non avrebbe potuto succederne alcun altro, e questo sarebbe stato un guaio, perché saremmo andati dritti dritti alle elezioni anticipate. Ma in quel caso, si poteva sperare nella moral suasion – di solito assai efficace – del Capo dello Stato: si sarebbe potuto far cadere un governo dotato di un’ampia maggioranza in mancanza di un voto di sfiducia? Draghi sarebbe rimasto sordo alle parole di Mattarella? E Letta sarebbe stato così matto da sostenere che senza i 5stelle di Conte questa coalizione avrebbe perso la sua caratteristica di “larghe intese”? Francamente, pur pensando che andare al voto anticipato sarebbe stata, e tutt’ora sarebbe, una cattiva prospettiva, avrei corso il rischio.

 

Ma Draghi, anziché mettere all’angolo Conte, indicandogli la porta se proprio aveva la smania di intestarsi una manovretta di palazzo che il 95% degli italiani non avrebbe né capito né tantomeno approvato, ha preferito il classico “bastone e carota”. Laddove il bastone era rappresentato dal “non se ne parla” circa la pretesa dei grillini turbo-pacifisti (ma in realtà supporter, volontari o involontari poco importa, di Putin) di bloccare gli aiuti militari da fornire all’Ucraina. Mentre la carota era la mezza disponibilità ad ascoltare le loro ragioni (si fa per dire) sul reddito di cittadinanza, il superbonus e il termovalorizzatore da installare a Roma sommersa dai rifiuti. Ora, c’è chi sostiene che queste aperture di Draghi fossero solo parole, pura tattica, e chi invece dice che qualche concessione il presidente del Consiglio era ed è pronto a farla. Come dimostrerebbe il “regalo” concesso al populismo giustizialista dei 5stelle con la revoca della concessione autostradale inflitta al gruppo Toto, una mostruosità giuridica – con quella procedura che Conte da premier ha solo minacciato e mai applicato ai Benetton dopo i morti del ponte Morandi (anzi, gli hanno dato 9 miliardi di buonuscita), mentre in questo caso la si è attivata senza che alcun incidente sia mai successo – di cui un governo presieduto dall’ex presidente della Bce non si sarebbe mai dovuto macchiare, e su cui non a caso Patuanelli e soci hanno subito messo il cappello. Ora, se fosse fondata questa corrente di pensiero, sarebbe più grave rischiare la crisi per intransigenza programmatica o calar le braghe per inseguire il consenso di Conte a tutti i costi? Io, come ho cercato di spiegare fin qui, non ho dubbi.

 

Certo, poi è vero quel che sostiene il mio amico Stefano Folli, e cioè che in questa vicenda è Conte (e Grillo, aggiungerei) ad aver perso la faccia, non Draghi. Ma questo solo per il dilettantismo del (presunto) leader pentastellato. Il fatto è che il Governo non si è affatto rafforzato, sia perché agli occhi di molti italiani che hanno avuto estrema fiducia in Draghi e che vorrebbero che continuasse a restare a palazzo Chigi anche dopo le elezioni, questo inseguire Conte gli fa pagare un alto prezzo in termini di credibilità. E sia perché la mezza tregua abbozzata l’altro giorno non ha per nulla messo fine alle fibrillazioni. Anzi, si ha l’impressione che più avanti, magari quando saranno venute a maturazione le coperture previdenziali dei parlamentari (24 settembre), la componente più estremista del movimento costringerà Conte a smarcarsi comunque dal Governo e probabilmente anche dalla maggioranza. E in quel momento tutto questo rincorrere l’avvocato del popolo si rivelerà non solo inutile, ma anche altamente controproducente.

 

Sia chiaro, non sono nato ieri e non mi sfuggono le ragioni della realpolitik e la necessità della ricerca del compromesso, specie se in nome della stabilità. Ma il ricorso alla senseria va centellinato. Altrimenti le mediazioni politiche sono come le ciliegie, una tira l’altra e quando ti accorgi di aver fatto indigestione è troppo tardi. In certe situazioni si ottiene più stabilità usando la frusta della provocazione (“io decido, e se non vi va bene andate in Parlamento e provate a sfiduciarmi”) che non il guanto di velluto dell’accondiscendenza. Certo, in questo sarebbe meglio se il presidente del Consiglio potesse contare sul Pd. Non sulla sua lealtà, che non manca, ma sulla capacità di iniziativa politica. Quella che dovrebbe indurre Letta e i dirigenti più avveduti e riformisti del suo partito a fare con decisione e senza tentennamenti, due passi che considero decisivi, sia per il Pd stesso ma sia soprattutto per la politica italiana e quindi per il Paese. Il primo è chiudere una volta per tutte con i 5stelle, tanto più ora che c’è la possibilità di avere come interlocutori quelli che, seguendo Lugi Di Maio, sono usciti ripudiando (seppur con non poche contraddizioni) il populismo del vaffa e dell’uno vale uno.

 

Caro Enrico (Letta), devi renderti conto che il timore di perdere consenso in caso di rottura con Conte è infondato. Perché il voto penalizzerà i grillini molto di più di quanto i sondaggi ora dicano, per cui la sottrazione di consenso al centro-sinistra sarebbe minore del vantaggio che avrebbe il Pd da questo atto di chiarezza politica (sono assolutamente convinto che il Pd prenderebbe una bella fetta di elettorato moderato sfiduciato se mandasse a quel paese, senza se e senza ma, Conte e soci). E perché quella rottura faciliterebbe la nascita di una nuova forza collocata al centro dello schieramento politico, con cui il Pd potrebbe agevolmente allearsi. Ma questo presuppone il secondo passo che Letta dovrebbe fare: dirsi convinto della necessità del proporzionale e battersi per una riforma della legge elettorale in tal senso. Caro Enrico (sempre Letta), so che sei figlio della logica del maggioritario, ma so anche che stai riflettendo sull’opportunità di rompere lo schema bipolare, anzi bipopulista, in cui la politica italiana si è infilata senza averne alcun vantaggio. E per attuare questa rottura lo strumento più adatto è una modalità di voto alla tedesca, con sbarramento al 4 o 5 per cento. Rompi dunque gli indugi, prendi l’iniziativa, e aiuta Draghi a riempire di buoni contenuti questi mesi di governo del paese che ha ancora davanti.
 

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