Nel centenario della nascita di Beppe Fenoglio. La scrittura nella vita
Pierfranco Bruni
“Non poteva piú vivere senza sapere e, soprattutto, non poteva morire senza sapere” (Beppe Fenoglio).
Beppe Fenoglio, la scrittura e la vita. Dentro la terra e nella trasposizione di un linguaggio che nasce in una eredità che è quella delle radici. Tradizione e radici. La trasposizione nella civiltà contadina è significativa ed assume quell’alone metafisico che trasformerà le eredità in identità. Da questo punto di vista “La malora” potrebbe essere considerato un romanzo chiave in una temperie contrassegnata da una diversificazione di ruoli e di testimonianze letterarie. Ma resta tale solo in una lettura in cui le interpretazioni mitico sacrali, quelle evidenziate, rispondono ad una chiara indicazione simbolica. D’altronde Fenoglio effettua un ripescaggio che è quello del primo romanzo di Pavese, “Paesi tuoi”, nel quale la terra, la campagna, la morte assumono codici fortemente simbolici che hanno derivazioni non solo letterarie ma soprattutto antropologiche. Il mito e il sacro sono due punti di forza. La morte come valore e nel valore della morte la forte capacità mitica di trasformare un fatto non in storia ma in griglia simbolica. Nel romanzo di Fenoglio, in questo romanzo, c’è una rottura storica e c’è una ripresa di alcune fasi archetipali. Dopo di che Fenoglio passa o ritorna alla storia, al realismo, alla perdita di quei valori simbolici che hanno dettato la poetica di Pavese.
Già in “I ventitré giorni della città di Alba” (1952) il realismo in Fenoglio ha una sua logica ma tutto si consuma nella determinazione descrittiva. La chiusa del racconto che dà il titolo al libro è la dimostrazione del relativismo verista. “I partigiani ripresero a salire, era spiovuto, i fascisti entrarono e andarono personalmente a suonarsi le campane”.
Una tipicità storico – letteraria la si riscontra in “Il partigiano Johnny” (1968). Il senso di inquietudine è in fondo uno scavo sradicante. In Pavese vi è anche questa condizione ma si risolve in una tensione che rasenta il mistico. Per esempio in “La casa in collina”. Il travaglio di Corrado è travaglio mistico. Invece “Il partigiano Johnny” è usura di una condizione esistenziale e affermazione di una condizione storica. La Resistenza e il Fascismo. Si trasformano in condizioni storiche e storicizzano la letteratura condizionando il ruolo e i destino stesso dei personaggi. Non è un Fenoglio diverso quello che leggiamo in “Una questione privata” (1963).
Un romanzo la cui tematica affronta ancora problemi di natura resistenziale. Il racconto è una ripetizione realista. Soltanto nel finale il gioco letterario potrebbe prestarsi ad una ulteriore analisi. Il concetto finale è forse l’inizio di una nuova avventura o di un nuovo capitolo. Ma è troppo tardi. Fenoglio morirà a Torni nel 1963 (era nato ad Alba nel 1922). “Una questione privata” si chiude con questa apertura: “Correva, con gli occhi sgranati, vedendo pochissimo della terra e nulla del cielo. Era perfettamente conscio della solitudine, del silenzio, della pace, ma ancora correva, facilmente, irresistibilmente. Poi gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò dritto Come entrò sotto gli alberi questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò”. La solitudine è dentro l’inquietudine. Letteratura pur non facendosi impegno si fa denuncia e corre il rischio, a volte, di sfiorare la retorica.
La condizione partigiana viene assunta come condizione esistenziale e la Resistenza diventa mito. Qui c’è la seconda separazione che divide il tracciato pavesiano da quello fenogliano. Il mito per Pavese sono gli archetipi e la memoria che racconta sono i simboli che si dichiarano e il destino nel quale si individuano metafore sono le metafore che diventano linguaggio. E poi è la grecità, il paesaggio, il paese, la campagna, le appartenenze. In Fenoglio alcune di queste cose sono appena accennate. Certo ci sono le Langhe, le campagne ma poi tutto il resto è decifrazione del reale.
Nella pagina finale de “II partigiano Johnny” si legge: “Ora fascisti non sparavano più sulla collina, ma rispondevano quasi tutti al fuoco repentino e maligno che i due partigiani avevano aperto dietro il camion. Poi dalla casa l’ufficiale fascista barcollando si fece sulla porta, comprimendosi il petto con ambo le mani, ed ora le spostava vertiginosamente ovunque riceveva una nuova pallottola, gridando barcollò fino al termine dell’aia, in faccia ai partigiani, mentre da dentro gli uomini lo chiamavano angosciati. Poi cadde come un palo”.
La Resistenza Fenoglio la interpreta mitizzandola, ma ciò che resta alla fin fine è la cronaca. Ecco perché ciò che maggiormente convince è il romanzo “La malora”. Un romanzo, come si è già detto, che ha una sua caratteristica e una sua fisionomia antropologica. La memoria è un filo sottilissimo che lega il passato al racconto. La memoria sostanzialmente si fa racconto. In altri scritti il racconto si fa cronaca. Come nel breve romanzo “La paga del sabato”, pubblicato nel 1969, ma scritto negli anni Cinquanta. Si parla del reinserimento di un partigiano nella vita civile di Alba.
Sulla stessa linea tematica si svolge “Primavera di bellezza” (1959). Johnny e la guerra partigiana come capisaldi. La realtà come specchio e non come maschera. In un contesto particolare nasce “Un giorno di fuoco” (1963). E’ indubbiamente un libro diverso. Soprattutto questo racconto segna, forse, la fase ultima degli scritti di Fenoglio. Una stagione intensa.
Una maturazione linguistica che passa attraverso la conoscenza della letteratura angloamericana. Questa conoscenza lo aiutò moltissimo: sia sul piano espressivo sia sul piano della stilizzazione dei personaggi sia nel modo di porgere il racconto. D’altronde lo stesso Pavese si servì della letteratura americana per decodificare alcune espressioni che poi sono entrate nel gergo pavesiano.
Indubbiamente Fenoglio è uno scrittore moderno (e mi riferisco alla tensione espressiva, semantica, alla langue se così può essere detto) e la sua modernità è tutta giocata sulla duplicità tematica. Una duplicità (l’iniziale scavo nella cultura contadina e la sclerotizzazione di questa in cambio di un realismo anche politico) che culmina nella proposta di un documento letterario.
Credo che Fenoglio sia importante proprio per una capacità di trasformare la letteratura in documento anche se gli esiti dal punto di vista stilistico estetico letterario sono – certamente discutibilissimi. Ma ciò non toglie che il suo paesaggio linguistico è significativo soprattutto quando inserisce nel parlato comune l’inglese. E in tal senso è anche uno scrittore di rottura. La mitologia della terra e del sangue è la presenza costante che si ascolta in Pavese. Questa mitologia è una chiave di lettura per capire il senso del destino e il sentimento del viaggio che vivono appunto in Pavese.
“La malora” (1954) è un romanzo in cui Fenoglio recupera il gusto della cultura contadina e İ personaggi sono la riaffermazione di un valore di identità. Il mondo contadino o meglio l’appartenenza alla terra è in fondo l’appartenenza alle radici. Terra-morte sono due poli importanti. C’è anche il viaggio. C’è il ritorno alla casa madre o casa paterna. Forse è il romanzo più singolare di Fenoglio. Lo avvicina a Pavese.
Alba è il mito della città. Ma è il paese che sgretola ricordi e fa emergere la nostalgia. Schemi e steccati linguistici in Fenoglio sono superati e la parola assume la rilevanza dei parlato come d’altronde si era già notato in Pavese. In Fenoglio, comunque, la parola resta parola, resta comunicazione e forse messaggio. In Pavese non è soltanto parola. La parola è la chiarificazione di un codice simbolico. E la parola racconta non per duplicare ma per fissare una metafora o, come già si diceva, per raccontare un mito.