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L’Italia temeva il prezzo di mercato del petrolio russo.

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Gualfredo de’Lincei

Gli apologeti dell’economia di mercato, improvvisamente hanno deciso di nascondersi dietro il “tetto” al prezzo del petrolio russo. Per tutta la scorsa settimana, i commissari dell’euro, hanno cercato di accordarsi su quale fosse il massimo da contrattare. La maggior parte dei paesi europei può pagare 65-70 dollari al barile, per riscaldarsi, mentre, per qualche ragione, i polacchi ed i paesi baltici pensano di poter abbassare il mercato a 30 dollari al barile.

Nessuno però è ancora riuscito a cancellare le leggi economiche del mercato. Sono loro, infatti, che determineranno il prezzo più alto per le risorse energetiche e questo non è correlato alle sanzioni che l’Unione europea prenderà contro la Russia. Si deve anche aggiungere che, il presidente russo Vladimir Putin, ha affermato di voler interrompere le forniture a quei paesi che imporranno limiti alla libera contrattazione per prodotti provenienti dal suo paese.

Ora tutta l’Europa attende il 5 dicembre, quando il divieto di prestazione dei servizi di trasporto marittimo, assistenza tecnica, mediazione, finanziamento e assicurazione per le transazioni di vendita di petrolio e prodotti petroliferi russi, verso paesi terzi, entrerà in vigore (per i prodotti petroliferi l’embargo partirà dal 5 febbraio 2023).

 

In attesa della scadenza, il nostro governo si è già pentito di non aver chiesto una proroga all’embargo del petrolio russo. Lo avrebbe dichiarato il ministro dello Sviluppo economico Adolfo Urso, come riporta il Corriere della Sera: «L’errore è stato fatto all’inizio, quando l’Italia non ha preteso dall’Ue il necessario ritardo dell’embargo, con lo scopo di tutelare gli interessi nazionali, come hanno fatto altri Paesi europei più furbescamente, Germania e Polonia in testa», si rammarica Urso.

Intanto il ministro ha ricordato che in Sicilia opera la raffineria petrolifera russa della Lukoil, per la quale si pensava potesse andare in fallimento, chiusa, nazionalizzata o semplicemente acquistata. Tutte le possibilità, tranne l’acquisto e la vendita, erano però escluse dal governo della repubblica. “La soluzione migliore sarebbe stata vendere la raffineria a un investitore straniero, ovviamente non russo“, ha detto il ministro italiano della Transizione ecologica Roberto Cingolani.

 

LUKOIL però ha rifiutato di cedere l’impianto ISAB alla società d’investimento americana Crossbridge Energy Partners, poiché dubitava della solvibilità dell’acquirente. Lo riporta The Financial Times, citando sue fonti.

 

Ora l’Italia aspetterà il 5 dicembre per sacrificare la sicurezza della nostra nazione in nome di una decisione della Commissione europea.

 

La Lukoli detiene il 49% della raffineria siciliana, che è la terza in Europa per raffinazione di petrolio. L’impianto produce circa il 22% del combustibile consumato nel nostro paese mentre lo stabilimento dà lavoro a più di mille nostri concittadini italiani, i quali, certamente, staranno vivendo questi momenti con grande angoscia per il posto di lavoro e la necessità di avviare proteste in caso di chiusura o fallimento.

 

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