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di Pierfranco Bruni 

 

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Qual è il mio Cantico dei Cantici in questi giorni di gioco e di ironie? La festa mi cammina dentro. Natale è una memoria. E gli anni continuano a lacerare i sogni. Sarà un nuovo anno. In questo mare che taglia la roccia vivo di immagini di golfi che mi portano alla Grecia di Ibico o di Pitagora.

Seguo in attimi perduti gli amori della mia vita. Non ci sono disamori. L’attrazione dell’indifferenza mi cammina tra gli sguardi smarriti.

Osservo il mare da una finestra d’albergo. Ho con me le carte dell’ultimo libro che non so se finirò di scrivere. Avrò ancora tempo. O avrò ancora parole per raccontare la storia di un destino?

Luna verde non mi interrogare sulle parole che non ho o sulle parole che feriscono la mia vita. Natale è una memoria e gli anni si fanno corti senza mai indugiare nella durata. La terrorista che ho conosciuta sui gradini di Trinità dei Monti, in epoche di lontane, ha consumato le sue stagioni. Il freddo mi taglia le dita.

Non ho malinconie da spendere o vissuti da contrappormi. Devo solo raccontare. Ma cosa? Se il mio strazio è già nel Cantico dei Cantici?

Salomone mi ha preceduto. Come potrò scrivere anch’io: “Baciami/con i baci della tua bocca:/le tue carezze/sono migliori del vino”?

Mi viaggia nell’anima il passo delle nostalgie ma io sono giunto alla mia Itaca del silenzio e resto come contemplazione nel mio recinto. Senza più bisogno di stelle. Perché troppe sono le stelle che ho ascoltato nelle lunghe assenze.

Poi. Verrà una luna più chiara delle albe che ho vissuto e mi porterà via “come un giglio/fra i cardi”.

Ma sì. La vita è una attrazione di un attimo anche nell’amore si perde perché troppo si dà. Ho udito prendermi nel suono: “fammi vedere il tuo viso,/…/la tua voce è dolce,/incantevole il tuo viso”.

In amore chi troppo offre spesso si perde tra le strade delle maree. Ora faccio i conti con la mia età. E. Tutto il buio che ho versato ha il cammino delle ombre.

Le ombre annunciano la grazia e la bellezza degli sguardi è nel desiderio che svanisce lungo i giorni corti che cominciano a recitare la fine di un destino.

Non smetto di osservare il mare anche se l’immagine che ho ha la figura di un deserto mentre so che “le tue labbra/sono come un filo di scarlatto/e il tuo parlare è incantevole”. Proprio perché conosco l’incantesimo dei corpi che si recitano il Cantico dei Cantici non mi lascio trasportare oltre l’orizzonte.

Ho troppo vissuto per lasciarmi rapire dagli incantesimi nonostante l’Oriente che mi recita il paese delle mille e una notte. Non so, giunto alla mia età, se valgono le mille notti o una sola notte. Ma cosa saremo domani?

La terrorista è partita. Eleonora è rimasta in Persia. Maria ha perso i ricordi. Teresa ha sciolto i capelli e forse mi aspetta. Io non ritornerò. Cristiana si è imbarcata con i pirati e la donna araba ha ancora il velo sul viso. Carmen festeggia tra le arene e la Spagna misteriosa. Isa resta sul porto e sa che l’attesa è più di un viaggio.

È ora. “Prima che soffi/la brezza del giorno/e le ombre fuggano,/salirò sul monte della mirra/e sul colle dell’incenso”. Solo così entrerò “nel mio giardino” a coltivare le rose bianche.

Natale è una memoria. Gli anni si inventano e la mia storia ha il vento dei destini.

Non potrò continuare a scrivere. Le mie guerre sono perdute e Troia è soltanto una geografia tagliata a pezzi tra le risacche con gli echi delle conchiglie che portano il rumore delle macerie.

Le mie parole sono macerie e vivo tra le rovine dei ricordi che non voglio avere. I ricordi non mi avranno perché la mia anima non sarà in vendita.

Porto con me, come sempre, un libro di Pascal e un altro di Proust. Mi servono anche per cercare di scrivere il mio Cantico dei Cantici. Non finirò comunque di scriverlo.

Pascal mi ha insegnato: “Corriamo senza un pensiero verso il precipizio, dopo esserci messi davanti agli occhi qualcosa che ci impedisca di vederlo”. Pagine sparse tra i miei quaderni arrugginiti. Altro tempo ancora.

Poi. Ancora con i piaceri e i giorni che invadono il mio accampamento. Troppo amore sfugge all’amore. Troppo amore nasconde la vita. Perché ci lasciamo abitare dalla morte? Muore Venezia e le pietre si sfaldano con il cuore di sabbia delle lontananze.

Proust dove mi hai condotto? “E sentiva sollevarsi il velo che ci nasconde la vita, cioè la morte che abita in noi, e scorgeva la cosa spaventosa che è respirare, che è vivere”. Ed è come se vivessi l’inquietudine del dopo. Sempre. Sono nella città dei mari incrociati.

Fine dicembre. E le barche sono una lama nell’acqua. Chissà quando durerà questa mia recita. Nel teatro di Adriano. Sottolineo rigo per rigo. Non cerco verità. Alla mia età neppure le certezze sono stanche. Mi vivo nel riso ironico del passato che scorre e del passato che non è più.

Il mio Cantico dei Cantici. Non riuscirò a finirlo. Rileggo: “Ti avrei condotto, introdotto/nella casa di mia madre;/tu mi avresti iniziata/e ti avrei dato da bere/vino aromatico/e succo di melagrana!”.

Consegno all’epilogo ogni ragione e ogni perdizione. Non bisogna amare troppo. Più si ama più si perde. Natale è una compagnia di liturgie. Riti che nei paesi della mia storia si ripetono e diventano ossessive nostalgie. In processione. La nascita è una morte tra i piaceri e i giorni.

Non finirò questo mio Cantico. Le pagine sono voli e le parole vengono cancellate. Chi tra le rocce è nato potrà capire il maestrale che travolge i tramonti sul mare. Non ho finzioni. Neppure quando il teatro mi impone di essere me stesso.

Se dovessi incontrare lo sguardo delle tempeste non colpirei di striscio. Mirerei con un colpo sicuro al centro dell’anima. Sento le pietre diventare frammenti. Quest’isola muore tra le sere abbandonate ai miraggi.

Ormai so che “la mia vigna, proprio mia,/è dinanzi ai miei occhi”.

Dicembre. I mari si incrociano. Il vento porta le rimanenze di un amore.

Io sono un popolo che ha smesso di lottare con la morte. Occorrono altri giorni. La speranza? I marinai vivono il mare osservando la bussola. Il vento ha le ferite del mare.

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