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LA “RADICALITÀ” DELLA SCHLEIN

SARÀ UN VANTAGGIO SE I RIFORMISTI

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COSTRUIRANNO LA LORO CASA COMUNE

E UN DANNO SE PREVARRÀ

IL “TUTTI UNITI CONTRO MELONI”
Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei. Basterebbe vedere i nomi della vecchia nomenclatura del Pd che hanno prima lanciato e poi sostenuto la candidatura della radical-chic Elly Schlein alla segreteria del partito, e magari aggiungere qualche “potere forte” che l’ha incensata – strana coincidenza, il giorno dopo le primarie, l’uscita del libro dal titolo evocativo “Radicalità. Il cambiamento che serve all’Italia” di Carlo De Benedetti, che si è sperticato in lodi per lei come nel 2013 per Renzi (occhio ai baci della morte, gentile neo-segretaria) – per trarre la conclusione che i Democratici avrebbero fatto meglio a optare per Stefano Bonaccini, pur con tutti i suoi evidenti limiti. Per la verità i poveri iscritti al Pd lo avevano scelto, il presidente della Regione Emilia-Romagna, ma per quella tanto populista quanto cervellotica pratica di far votare chiunque ai gazebo – senza alcun controllo – e di far prevalere l’esito di questo scrutinio su quello del voto interno, ecco che la neo-iscritta Elly la rossa, una che del Pd ha sempre detto peste e corna (ed è l’unico tratto distintivo dei suoi pronunciamenti politici fin qui), si è ritrovata a salire sulla tolda di comando di un partito da molto tempo in crisi e dopo le elezioni politiche del 25 settembre scorso in preda ad una vera e propria crisi di nervi.

 

Amen, si dirà. Certo, volendo optare per il “tanto peggio, tanto meglio”, si potrebbe malignamente arrivare alla conclusione che è bene che sia andata così, perchè Schlein significherà un Pd più debole, dotato della sola opzione politica del “campo largo” che lo leghi indissolubilmente ai 5stelle e a tutto ciò che sta alla sua sinistra. Ma il sistema politico italiano, che non è affatto ancora uscito dalla lunga e tormentata fase di transizione apertasi con la fine della Seconda Repubblica (novembre 2011), ha invece assolutamente bisogno di un Pd forte e baricentrico. Ne ha bisogno la sinistra, per costruire un’alternativa credibile alla destra. Ma ne ha bisogno anche la destra, e segnatamente Giorgia Meloni, per evitare che l’opposizione al suo governo sia solo o prevalentemente dentro la maggioranza che lo sostiene (come è stato fin qui e come si preannuncia sarà in modo crescente).

 

Ora, in molti sono convinti che il radicalismo populista di cui la successora di Enrico Letta è intrisa porterà molti voti al Pd. Un po’ perchè riunirà le anime disperse della sinistra (auguri), un po’ per l’effetto novità che paga sempre (occhio che dura sempre meno), ma soprattutto perchè si (ri)prenderà i consensi piddini emigrati verso i 5stelle, svuotando il movimento dell’avvocato Conte. Non ne sono così convinto, anche perchè sono anni che il Pd tenta senza riuscirci di recuperare l’anti-politica nelle sue varie forme, a cominciare da quella grillina, con il nobile intento pedagogico di redimerla ma finendone contaminato. Tuttavia, può darsi che stavolta l’esperimento riesca. Ma se fosse, il Pd si ritroverebbe a pagare un prezzo politico altissimo, schiacciato come inevitabilmente finirebbe sui temi e sulle parole d’ordine grilline. Un esempio per tutti: la guerra. Schlein, a esser generosi si colloca nella zona grigia dell’ambiguità, fasciata in una bella carta pacifista; ad esser realisti sta con Putin, esattamente come Conte (e non diversamente, se non negli accenti, da Berlusconi e Salvini). Essendo stato Letta fermo nella scelta euro-atlantica, è opportuno che il Pd faccia un salto nel buio del genere, su un tema cruciale come questo? Non so se al Partito Democratico faccia guadagnare o perdere voti, ma certo farebbe molto male all’Italia.

 

C’è dunque un solo un motivo per cui è possibile guardare positivamente all’avvento del radicalismo di Schlein: l’eventualità che il Pd si spacchi, con la fuoruscita dei riformisti. È una circostanza che io avevo apertamente auspicato, dopo le dimissioni di Letta a seguito della sconfitta elettorale dell’anno scorso, sostenendo che il problema del Pd non potesse essere ridotto ad una mera questione di leadership. Insomma, andava fatto un congresso vero, a tesi contrapposte, per poi decidersi a dividere ciò che posticciamente era stato a suo tempo unito. Da una parte un partito massimalista alla Jean-Luc Mélenchon (o, se piace di più, laburista stile Jeremy Corbin), con dentro anche Conte e la pattuglia del Fatto Quotidiano, Fratoianni-Bonelli, Maurizio Landini, Michele Santoro, il professor Tomaso Montanari e il professionista dell’antimafia Roberto Saviano. Dall’altra, un partito riformista, magari con un’anima più socialista o liberal-socialista e una più marcatamente liberal-democratica, che aggiunga ai riformisti del Pd il duo Calenda-Renzi, che recuperi Emma Bonino e il mondo radicale, che si prepari ad ereditare i moderati di Forza Italia (meglio gli elettori che gli eletti) una volta che la calamita berlusconiana non ci sarà più.

 

Il fatto è che neppure la nomina di Schlein sembra indurre a prendere atto che per salvare la sinistra, anzi le due sinistre, bisogna dichiarare definitivamente fallito l’esperimento veltroniano di mettere insieme i post-comunisti e gli ex democristiani di sinistra, più una spruzzata di laici. Sì, Beppe Fioroni è immediatamente uscito, e probabilmente qualche altro cattolico lo imiterà. Ma basta ascoltare il mio amico Enrico Morando (nella War Room di martedì 28 febbraio, con Fioroni stesso e Gianfranco Pasquino, qui il link) per capire che la scelta della pattuglia dei riformisti doc è quella di restare e fare opposizione alla nuova segreteria. Per carità, è vero che nei partiti di sinistra di tutto il mondo convivono due anime, ma intanto quella di “sinistra-sinistra” non cavalca l’anti-politica e non ha dei populisti in purezza come alleati. E poi altrove l’area moderata, liberal-socialista o popolare che sia, è ben presidiata, mentre da noi non ha soggettività politica nel centro-sinistra, fatica ad affermarsi al centro (il cosiddetto Terzo Polo è già morto, ma di questo parleremo la settimana prossima), e ha abdicato nel centro-destra, dove è in corso un’inversione di ruoli tra il duo Salvini-Berlusconi e la Meloni. Ecco perchè sarebbe importante che i Morando, i Gori, i Ceccanti, si decidessero a prendere il toro per le corna, mettendo definitivamente in cantina quella maledetta “vocazione maggioritaria” – peraltro inutile senza una legge elettorale come il doppio turno francese – che è una sorta di ricatto morale bipolarista per cui si sta insieme solo per battere l’altro polo, capendo una volta per tutte che al Paese per essere veramente governato serve che si costruiscano alleanze politiche (basate sulle affinità) e non cartelli elettorali (che svaniscono dopo il voto). Anche perchè in vista di quella che io considero la certa spaccatura dell’attuale maggioranza – l’incertezza riguarda il motivo scatenante e il momento in cui si manifesterà – ci vorrà uno sforzo di fantasia politica per assicurare un governo decente al Paese, e non potrà certo essere il Pd a trazione Schlein a metterla in campo.

 

C’è infine un ultimo motivo per cui i riformisti dovrebbero, facendo autocritica, di staccarsi da “questo” Pd: l’aver perso l’identità di vero partito. I Democratici conservavano l’identità del partito costruito sulla partecipazione: iscritti, sezioni, congressi, no a leader “padroni” (anche se il prezzo è stato nessun leader), no ai cognomi nel simbolo. Poi, però, questa storia delle primarie, e per di più all’amatriciana, li ha spinti verso la deriva movimentista, a preferire la piazza alla rappresentanza, il referendum sulle personalità dei contendenti anziché il confronto di idee. Ci si lamenta del calo degli iscritti e della partecipazione: ma che senso ha che uno si iscriva ad un partito e faccia militanza se poi si privilegia il signor nessuno che passando (e magari ripassando più volte) davanti al gazebo si toglie lo sfizio di esprimere un voto (o magari lo fa per obbedire a qualcuno) che conta di più di quello del povero militante?

 

Ma se invece si cede al richiamo del “insieme battiamo le destre”, sperando nel lavacro purificatore dello stare per un po’ all’opposizione dopo tanto “governismo” e immaginando che il tema sia ritrovare l’unità – che non c’è mai stata, realmente – e non invece consacrare le diversità, senza più ambiguità e ipocrisie, e se in conseguenza di questo Bonaccini commetterà l’errore (da matita blù) di fare il presidente del Pd sancendo così che non esiste differenza politica sostanziale con la vincitrice delle primarie, beh allora anche quell’indiretto “vantaggio” che sia prevalsa Elly la rossa non si verificherebbe. E rimarrebbe soltanto lo svantaggio di avere una sinistra ideologica e movimentista, proprio mentre è massima la necessità di averne una moderna, post ideologica e pragmatica.
 

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