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FONDAZIONE AUGUSTO RANCILIO

FAR – Fondazione Augusto Rancilio è un ente culturale senza fini di lucro fondato nel 1983 e intitolato alla memoria dell’architetto Augusto Rancilio, prematuramente scomparso all’età di 26 anni. La Fondazione promuove e sostiene progetti in campo sociale, artistico e culturale, con una particolare attenzione alla tutela del patrimonio storico-artistico nazionale.

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Nell’ambito della sua attività, FAR si occupa del progetto di restauro di Villa Arconati per tutelare e promuovere la conoscenza e la riconversione culturale di un bene che è a tutti gli effetti una delle eccellenze artistiche del territorio lombardo. FAR organizza, inoltre, eventi e attività per la valorizzazione della Villa: cene a tema, rievocazioni storiche, visite guidate, percorsi tematici, eventi enogastronomici, serate di gala.

 

La Fondazione sostiene, inoltre, il mondo delle arti, organizzando mostre di fotografia, arte moderna e contemporanea, spettacoli teatrali e musicali, conferenze, workshop, appuntamenti culturali.

 

Nell’ambito del suo progetto per il sociale, FAR sostiene realtà che promuovono l’inserimento nel mondo del lavoro dei giovani e delle persone svantaggiate a livello cognitivo e sociale.

Realizza i prodotti del Bookshop FAR grazie alla collaborazione con artigiani locali per sostenere la ricchezza della territorialità.

 

Il Centro studi FAR sostiene progetti di studio e di ricerca, favorendo l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro grazie alla collaborazione con le scuole e le università italiane,

offrendo possibilità di ricerche, scambi, concorsi, borse di studio e sostegno a progetti universitari e post-lauream.

 

 

L’IMPONENZA DELLE MONTAGNE E IL SENSO DELLA TEATRALITA’

 

Mauna Kea, Popocatépetl, Uluru, Shasta, Arunachala, Ahkka, Kailash, Tateyama sono nomi esotici, perfino talvolta difficili da pronunciare e da ricordare e che per noi in genere sono al massimo termini da ricercare su un atlante. Eppure per gli hawaiani e i messicani che lo venerano in quanto vulcanico, per gli aborigeni australiani che lo difendono dai turisti, per i nativi americani che lo fanno abitare dalla divinità del mondo superiore, per gli indiani che ne fanno risalire l’origine a una colonna di luce di Shiva, per i lapponi che lo identificano con il senso della saggezza, per tibetani e indù che devono recarvisi in pellegrinaggio almeno una volta nella vita, per i giapponesi che lì vi riconoscono terra, acqua, fuoco, vento e aria, gli elementi costitutivi della vita, per tutti costoro questi monti sono sacri. Tutte le religioni hanno guardato alle montagne con una particolare venerazione: potevano essere esse stesse delle divinità, svolgere un ruolo importante come l’Ararat per la leggendaria Arca di Noè oppure ospitare gli dèi, come nel caso ai noi più noto dell’Olimpo, un luogo inaccessibile dove non pioveva né nevicava, protetto alla vista degli umani dalle perenni nubi che lo circondavano. E guai a sfidarla se non si voleva fare la fine dei Giganti. È facile guardare con supponenza a queste credenze – che non sono leggende ma miti cioè racconti fantasiosi che celano sempre al loro interno un nucleo di verità tutta da scoprire – ma se ci si lascia invece guidare senza pregiudizio, si scopre la loro vera ragion d’essere. Da un lato questa risiede nel fascino che da sempre le montagne esercitano sugli uomini ma dall’altro nell’insegnare il rispetto per l’ambiente di cui le divinità erano custodi. In tal modo chi lo infrangeva era condannato in quanto blasfemo. Nella tradizione delle arti visive questo rapporto con il sacro viene sottolineato da una visione che dal basso dove abitano gli uomini si slancia verso l’alto in omaggio a una maestosità lontana e simbolicamente irraggiungibile. Thomas Cole e Jean-Pierre Houël le montagne le collocano lontane sullo sfondo, Gustave Courbet le avvicina ma di poco, Joseph William Turner le indaga con pennellate turbolente, Thomas Hill riprende la Yosemite Valley anticipando la visione che sarà anche oggetto della ricerca fotografica, e vedremo quanto diversa, di Ansel Adams. Ma anche quando questa lontananza non viene considerata, come nel celebre Il viandante nel mare di nebbia dipinto nel 1818 da Caspar David Freidrich, lo sguardo si posa incantato come fosse sorpreso del suo nuovo punto di osservazione. È proprio questo aspetto a sorprendere non solo i contemporanei ma anche noi per la potenza con cui si anticipa la visione che avrebbe caratterizzato la fotografia: a Parigi nel 1855 i visitatori dell’Exposition Universelle des produits de l’agriculture, de l’industrie et des beaux-arts di Parigi del 1855 avranno forse provato sensazioni simili di fronte alla riproduzione della chiosa del Monte Bianco ottenuta da Friedrich von Martens accostando dodici immagini in una spettacolare panoramica. Quando poi la fotografia si afferma con pienezza fino a raggiungere l’ampio pubblico che visita le mostre e accede ai libri illustrati, molte cose davvero cambiano e tutto succede in contemporanea al di qua e al di là dell’Oceano. In America Edward Weston e Ansel Adams ritraggono le montagne ma anche le scalano stabilendo un rapporto simbiotico con la natura che ora appare vicina, raggiungibile anche dal punto di vista percettivo perché nelle loro fotografie sono perfettamente a fuoco sia i particolari in primo piano che il lontano orizzonte. Sempre in quel continente ma a sud è il peruviano Martin Chambi a percorrere per primo a dorso di mulo le Ande per restituirci le prime immagini di quei luoghi compreso il Machu Picchu accostate a veri e propri reportage etnografici sulla vita delle popolazioni andine. In Europa il nuovo stile nasce grazie all’inventiva, all’estro e perché no al coraggio di fotografi che erano anche provetti scalatori: il più famoso e apprezzato, capace di creare spedizioni in grado di portare in vetta grandi fotocamere a banco ottico e speciali zaini da lui inventati per contenere, proteggendole, le fragili lastre di vetro che fungevano da negativi è stato Vittorio Sella. Si deve a lui se vengono definite fotografie alpinistiche anche quelle che, come nel suo caso, sono state scattate anche ai monti del Caucaso, del Tibet, dell’Uganda o dell’Alaska.

Quando Marco D’Anna ha deciso di confrontarsi con le montagne per un progetto che vuol essere ambizioso perché originale, ha dovuto e voluto fare i conti con tutte queste visioni poetiche, letterarie ma soprattutto pittoriche e fotografiche. Rapportarsi con il passato significa riconoscere di avere un debito di gratitudine che ognuno deve necessariamente provare nei confronti dei sentieri già tracciati da altri non perché ci si senta obbligati a ripercorrerli in modo meccanico ma per fare tesoro delle direzioni che ci sono state indicate. Riflettere su tutto ciò significa lavorare sullo stretto crinale (termine qui particolarmente appropriato) che divide la soggezione al prestigio di chi ci ha preceduto dalla sicurezza di un confronto dialettico da cui uscire con autorevolezza. Il fotografo svizzero lo ha fatto, per esempio, analizzando la pittura di Giovanni Segantini per coglierne un aspetto diventato centrale, quello del rapporto fra luce e ombra usato dal pittore per conferire al paesaggio montano quel particolare fascino che si identifica nello spiritualismo che lo animava. Qui entra in gioco un grande tema, quello del rapporto più stretto di quanto in genere si riconosce fra fotografia e pittura. Se nei primi anni della scoperta dell’allora giovane arte questa soffriva di una dipendenza che era nella stessa misura estetica, tecnica e complessivamente culturale anche legata al fatto che i molti che la praticavano ad alto livello erano pittori di formazione, ben presto la fotografia ha cominciato a costruirsi una visione del mondo personale e a conquistarsi uno spazio autonomo e a raggiungere quella consapevolezza grazie alla quale le è stato possibile dialogare senza remore con il mondo della pittura nel quadro di un reciproco riconoscimento. Marco D’Anna come tutti i contemporanei questo antico conflitto lo sente come un’eco lontano ed è questa la ragione per cui dialoga con Segantini con leggerezza e serenità andando alla ricerca di un punto di confronto basato sull’espressività. Sarebbe stato fin troppo semplice stabilire un’analogia fra le minuscole pennellate che caratterizzano lo stile del pittore e i pixel che animano la fotografia digitale. La scelta di campo è ricaduta, al contrario, sullo spazio dove si concentra l’attenzione dell’autore e di conseguenza dell’osservatore: la delicatezza plastica delle stampe eseguite partendo da carta Fabriano stabilisce il raffronto con la tecnica divisionista ora rivisitata in chiave contemporanea. Quei colpi di luce, quelle sfumature, quegli sbalzi cromatici, quelle sovrapposizioni rivivono nella morbidezza di una carta che non nasconde ma esalta l’irregolarità della sua superficie. C’è un aspetto fondamentale che riguarda il rapporto che queste opere sanno stabilire con chi le osserva, un dato importante perché non sempre l’artista considera lo sguardo, inevitabilmente diverso dal suo, che altri porranno all’opera da lui realizzata. Qui invece si gioca su una curiosa contraddizione: chi osserva da lontano viene attratto dal senso compositivo, dalle atmosfere, dalla luce diffusa ma quasi sempre perde di vista la bellezza dei particolari mentre chi si avvicina ne coglie l’importanza, ne ammira la capacità di alludere in poco spazio alla grandiosità, ne apprezza l’abilità con cui cattura le molte intensità della luce ma così rischia di perdere di vista l’insieme. Bisogna saper considerare entrambi gli aspetti e quindi avvicinarsi alla montagna con la consapevolezza di far parte di quella stessa natura ma anche osservarla nel suo insieme perché solo così se ne coglie la maestosità. Il punto di vista, che, come abbiamo visto nella storia, è molto cambiato, diventa un nodo importante: se è significativo che Segantini dietro la casa in cui abitava in Engadina si fosse fatto costruire un atelier circolare che gli avrebbe permesso di allargare lo sguardo, lo è altrettanto il fatto che non lo usasse quasi mai preferendo lavorare en plen air come a ribadire un rapporto più direttamente fisico con la natura.

 

Forte di questa consapevolezza, Marco D’Anna ha iniziato a osservare la montagna non più come un pittore che sceglie un’unica prospettiva e su quella dimensione concettuale raccoglie tutto il suo lavoro creativo, ma come un fotografo che gira in una ricerca incessante attorno ai suoi soggetti per coglierne di volta in volta tutte le molte sfumature che incontra e che riporterà nei diversi scatti realizzati, consapevole che solo così i monti potranno trasmettere la loro vitalità.

Per una ormai antica convenzione – o forse dovremmo definirla convinzione – abbiamo l’abitudine di immaginare il mondo secondo una scala di valori che dalla vetta abitata da quello animale caratterizzata dalla mobilità scende al vegetale e si ferma a quello minerale cui sarebbe sconosciuta la vitalità dei primi due. È una trasposizione meccanicistica dell’evoluzionismo oggi superata da una visione complessiva della realtà intesa nella sua interezza, la cosiddetta ipotesi Gaia che considera l’interazione fra organismi viventi e componenti cosiddetti inorganici in un unico, vitale sistema sinergico dove i cambiamenti, talvolta appena percepibili talaltra assai più evidenti, sono continui. È singolare che la scienza sia arrivata a queste conclusioni solo negli anni Settanta del secolo scorso mentre l’arte l’aveva presa in considerazione molto tempo prima avvicinandosi, come si è detto, a quel mondo che un tempo faceva da lontano sfondo alle vicende umane. Per questa sua ricerca insieme delicata e spettacolare, immaginifica ma anche dotata di una intrinseca grandiosità Marco D’Anna ha scelto una zona dell’Engadina, ma lo ha fatto andando oltre ogni preciso riferimento geografico non perché non volesse muoversi proprio in quella terra ma perché ha voluto considerarla come un archetipo, come l’idea stessa della montagna, quella che potrebbe essere dovunque perché, più che il luogo qui conta il costante rapporto che noi sappiamo stabilire con la natura. Da qui la sua dichiarazione sullo stretto legame che corre in perfetta analogia fra la fotografia e la memoria, essendo entrambe costituite da frammenti in continuo mutamento. Ma non ci si ferma qui: se è difficile lavorare sulla memoria per poterla depurare di quelle tante abbaglianti visioni che la rendono così profondamente soggettiva, anche la fotografia crea quella che Marco D’Anna definisce realtà immaginata perché pone sullo stesso indistinguibile piano il soggetto ripreso e il modo tutto personale di interpretarlo. Tutto ciò non si ferma al rapporto fra il fotografo e il suo soggetto ma coinvolge anche a pieno diritto il fruitore. Parafrasando una considerazione del filosofo francese Michel de Montaigne (!) sulla parola che per metà è di chi la usa e per metà di chi l’ascolta, si potrebbe qui sottolineare il consapevole intento del fotografo di proporre a chi osserva le sue opere di non limitarsi al ruolo passivo di chi ne constata la visione altrui ma di diventare lui stesso soggetto capace di riconoscere in queste immagini la propria personale esperienza insieme visiva ed emotiva. Come si vede ad essere messo in discussione è così il meccanismo che solitamente contrappone soggettività e oggettività, in  questo caso invece intersecate in una dialettica in costante divenire. Semmai ad alternarsi in modo più definito è il tempo: da qui nasce l’idea di scandire questa imponente ricerca seguendo l’avvicendarsi delle stagioni in un inseguirsi di visioni che ogni volta si concede a nuove rivelazioni. La primavera si apre, letteralmente, con un trittico che allarga lo sguardo in un inseguirsi di nuvole, quelle che in bassa quota sembrano dividere l’area rocciosa da quella su cui spunta il nuovo fogliame attestato dalle tonalità brillanti del verde e quelle che attraversano un cielo finalmente azzurro. Ora l’obiettivo si sofferma sui particolari, sembra voler entrare nel bianco lattiginoso delle nuvole per scoprire lo scuro minaccioso della roccia che a stento nascondono, poi si apre in una singolare analogia con le chiare forme di un gregge di pecore al pascolo. Qui le macchie di colore dai confini indefiniti rappresentano un esercizio di stile perché è più evidente che in altri punti la citata reinterpretazione della tecnica divisionista. Il confronto fra pittura e fotografia, si ripresenta con ancor maggiore evidenza nella serie dedicata all’estate: qui i paesaggi sono letteralmente creati dal colore nelle sue moltissime sfumature perché il verde e il grigio, il blu e il bianco si incontrano, ora in un’armonia determinata dagli sfumati ora in un confronto aspro fra opposti – il cielo disteso e l’irregolarità delle pareti scoscese, le zone illuminate brillanti e le ombre che si allungano senza tuttavia cancellare del tutto i segni del paesaggio – fino a creare un’affascinante sensazione di profondità che attira lo sguardo e lo incanta. È un’atmosfera sospesa che anticipa l’improvvisa comparsa di figure animali perfettamente inseriti nella natura e semmai forse stupiti, nei loro sguardi lontani, di una presenza umana, perdipiù se dotata di quella macchina fotografica che li inquadra, li punta ma non li mette in pericolo. Poi, con un improvviso cambio di passo, sono ancora una volta i particolari ad assumere il ruolo di protagonisti con il rosso, il giallo, il viola brillante con cui i fiori fanno sentire la loro decisa presenza. Le cime aguzze, il cielo coperto che sembra aver smarrito il suo blu, le sfumature dei verdi che tendono ad assumere gradazioni più scure e si macchiano di gialli ed arancioni annunciano l’autunno e l’occhio del fotografo si adegua al modo con cui ora la luce immerge tutto in una nuova dimensione cromatica, scivola sui dirupi, sottolinea l’irregolarità dei versanti. Solo una piccola nuvola compare da sola e danzando nell’aria va a stabilire un insolito equilibrio fra il ricordo della stagione che sta per concludersi e la sorpresa che anticipa quella dell’inverno. Ora tutto davvero muta perché la neve si appoggia sulle rocce con la leggerezza di una matita di grafite su un foglio, sommerge un paesaggio dove le figure umane si muovono con la disinvoltura nata dalla dimestichezza, fa emergere solo pochi tratti che definiscono con un segno grafico deciso la presenza delle case, ritrova le stesse pecore che in primavera brucavano fra i fiori e ora si muovono lente sotto la nevicata, si posa in modo irregolare sulle asperità delle pareti come a segnalare con severità le difficoltà per chi vorrà sfidarle, si misura con l’imponenza di un pino che si è creato su un declivio una insolita postura per resistere al vento. Per questa ricerca pur così intima Marco D’Anna lavora esattamente come se avesse previsto di esporre in un luogo che, ospitando le sue immagini, diventa di per sé magico. Tutto sembra già previsto da un’attenta regia. L’austerità elegante degli infissi delle porte le incornicia ora stabilendo una evidente sintonia ora creando un intrigante contrasto con altre porte che si aprono su un buio misterioso, la luce che proviene dalle grandi finestre della villa illumina di taglio le fotografie inducendo i visitatori a muoversi per scegliere la miglior posizione per osservarle ma, proiettando sul pavimento le sagome rettangolari dei telai, crea un ulteriore gioco di rimandi. Le diverse dimensioni delle immagini che accompagnano la visione in modo lineare salvo, talvolta, rivelarsi in una sorprendente esplosione di colori e di forme rinnovano in chi le osserva alterne sorprese. Ed è l’insieme a stabilire quel senso di teatralità che in ultima analisi l’imponenza delle montagne suggerisce e, forse, rende inevitabile.

 

 

Roberto Mutti    

 

La montagna divisionista tra realtà e immaginario

Per la prima volta, le sale dell’ala espositiva di Villa Arconati si “riempiono” di fotografia.

Verbo non casualmente utilizzato, in quanto le fotografie di Marco D’Anna acquisiscono dimensioni imponenti e monumentali capaci di coinvolgere il visitatore in una visione immersiva di paesaggi montani in un contesto suggestivo e ricco di storia.

Le pareti secolari della dimora sembrano accogliere queste vedute alpine in un dialogo al di là del tempo, grazie alla bravura del fotografo Marco D’Anna che cattura un istante e lo rende altro attraverso una rielaborazione immaginaria e quasi pittorica.

Fin dai suoi albori, la fotografia è stata oggetto di dibattiti e riflessioni che hanno scosso il mondo dell’arte. I rapporti della pittura con la fotografia sono innegabili, anche se inizialmente dichiarati con reticenza o addirittura nascosti per paura di venir meno alla definizione di “artista”. Molti pittori realisti si sono serviti del mezzo fotografico, in aggiunta all’osservazione en-plein-air, per realizzare composizioni pittoriche ed indagare il contrasto tra luce e ombra.

Al contrario, Marco D’Anna nei suoi scorci di montagna ha rivolto il suo sguardo alla pittura, in particolare al divisionismo di Giovanni Segantini. Il parallelismo era ineluttabile di fronte al soggetto di partenza delle sue fotografie: l’Engadina, luogo caro al pittore, tanto da essere definito da lui stesso “il mio paradiso”. Emblema di questo periodo idilliaco in contatto stretto con la natura è il suo maestoso Trittico delle Alpi, a cui la mente di Marco D’Anna non ha potuto fare a meno di pensare.

L’esposizione si apre proprio con un trittico lungo più di quattro metri, che annuncia il tema della prima sala, la primavera, che si snoda nelle altre stagioni per andare a concludersi nella notte scura e buia.

Il fotografo non conferisce una valenza simbolica a questi paesaggi, non è presente uno scopo narrativo e semantico, anzi sembra voler dichiaratamente estromettere elementi che potrebbero distogliere l’attenzione dello spettatore dalla potenza e spettacolarità della natura.

Una natura che si evolve e muta di stagione in stagione fino a tingersi di un bianco quasi spettrale in inverno. Proprio in questa sezione compare la presenza umana che irrompe nel silenzio di queste distese innevate. Lo stesso Segantini aveva collocato nella stagione invernale uno dei tre temi fondamentali dell’esistenza umana: la morte. In questi mesi freddi, tutto è dormiente e la natura si avvia verso una nuova rinascita. Le giornate si accorciano, concedono spazio all’oscurità propria della notte, misteriosa e minacciosa, come può esserlo la montagna con i suoi pendii e strapiombi che a volte non lasciano vie di fuga.

Marco D’Anna restituisce un’immagine poliedrica della montagna luminosa e incantevole quanto ostile e insidiosa. Accompagna lo spettatore in un viaggio visivo ed emozionale dalla luce alle ombre, attraverso scenari immaginari tratti dal reale, frutto dell’ingegno e della creatività del fotografo.

Trentaquattro opere che racchiudono l’immensità e la grandiosità della natura, con cui Marco D’Anna chiama ognuno di noi a vivere un’esperienza romantica e interiore, alla ricerca della propria montagna, quella dell’infanzia, dello svago e della passione: la vetta della nostra memoria.

 

Valeria Foglia

 

IL MITO DELLA MONTAGNA
Pittori, fotografi, incisori, scrittori, sono stati i pionieri.

La pittura dei paesaggi alpini d’alta quota ha diffuso al pubblico una nuova visione del mondo alpestre pieno di romanticismi e simbolismo cercando di trasmettere la forza evocativa delle Alpi.

William England, Caspar Wolf, Ferdinand Hodler, Harnold Böcklin, Alexandre Calame e soprattutto Giovanni Segantini con la sua mistica, hanno contribuito in maniera determinante, attraverso la loro poetica, a creare il mito della Montagna nel quale tutti noi oggi crediamo.
Prima di tale mito, la montagna era vissuta come un luogo ostile, duro da vivere, pieno di magia, pericoli e mistero.

OLTREREALE,

La realtà immaginata.
Frammenti di memoria infinitamente mutabili

Sviluppo del mio lavoro:

Prendendo l’esempio di un paesaggio di montagna, so che per scattare l’immagine ci si deve avvicinare al luogo. Ho cercato di cogliere la catena montuosa da altri punti di vista e con luce diversa. Non solo mi sono soffermato sulle prime cime ma ho iniziato a vagabondare con lo sguardo, dalle più vicine alle più lontane, cercando di fissarle nella mia mente. A loro volta hanno evocato altre immagini, non necessariamente fotografiche, ma magari quadri di artisti di epoche diverse, realizzati con varie tecniche.

“La realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi”; come la memoria che continua mutabile giorno dopo giorno a trasformare i ricordi, frammenti in continua trasformazione.

La mia fotografia, come la memoria, è composta da frammenti in continuo mutamento. Ho cercato di fermare un’immagine composta da molti ricordi dello stesso luogo, apparentemente sempre uguali ma, in fondo, sempre diversi. Le fotografie delle montagne sono anche la ricerca impossibile di fermare il tempo di creare una memoria indissolubile.

Così, per evadere dalla nuova solitudine creata dalla pandemia del Coronavirus nel 2020, ho raggiunto l’Engadina durante le quattro stagioni.

Nella testa avevo il celebre trittico di Giovanni Segantini, il grande ambasciatore del mito della montagna engadinese. Ispirandomi alla potenza della sua pittura fatta di luci e di ombre, ho creato le immagini fotografiche con la tecnica digitale. Sovrapponendo strutture di carta d’acquarello Fabriano, ho dato vita a immagini contemporanee che richiamano la tecnica divisionista in una nuova, composita e inedita visione dei luoghi iconici dell’alta Engadina.

I paesaggi sono reali, ma allo stesso tempo immaginari. Sono innesti.

Il luogo è l’Engadina, ma le vette sono immaginazione realistica, che mi consente appunto di creare una “realtà immaginata”, pura costruzione, mito!

La fotografia si stacca così dalla riproduzione del reale, ci interroga, rimette in discussione quello che diamo per acquisito accentuando il limite tra oggettivo e soggettivo. In questo modo entra nel mondo dell’immaginario fantastico della creazione, della memoria e della visione, abbracciando con gratitudine l’arte che ci ha consentito di “vedere” il passato prima della tecnica fotografica: la pittura.

 

Marco D’anna

 

La montagna che è in ognuno di noi

 

La mostra Oltrereale di Marco D’Anna è la prova di quanto l’uomo abbia bisogno della natura, soprattutto nei suoi momenti più fragili.
Il progetto di D’Anna è ambito, nato durante la pandemia quando il mondo era avvolto in una solitudine globale. Un silenzio che ci spaventava, abituati alla città frenetica e chiassosa, ma che piano piano ha portato i nostri sensi a riscoprire qualcosa che ci ha sempre circondato: la natura.
Essa è capace di terrorizzare con la sua forza ma può anche rassicurare con la sua bellezza. Affascinante e distruttiva, è sempre stata fonte di fascino e di attrazione per l’uomo. Ed è questo aspetto che ha conquistato gli occhi e il cuore del nostro fotografo.
In un momento in cui le nostre libertà erano limitate, la natura, meglio ancora le montagne, sono state un rifugio per questo ricercatore di paesaggi tra le cime dell’Engadina. Ambienti puri e autentici che donano serenità ai nostri cuori, riprodotti con una tecnica nuova che ricorda il divisionismo di Segantini.

La Montagna è un luogo estremamente accogliente e gradevole che ci permette di rigenerare il nostro corpo. Osservando i paesaggi di Marco D’Anna, si ha proprio la sensazione di essere all’interno della foto, distesi su quei prati, circondati dai colori e dai rumori della natura che ci fanno sentire “a casa”.

Grande è stata la capacità di questo artista nel riuscire a immortalare il rapporto profondo, intenso e assoluto tra l’uomo e la natura, facendo diventare le sue emozioni al momento dello scatto, i sentimenti di tutti noi. Ed è qui che scatta la magia della tecnica utilizzata da Marco D’Anna, immagini create da sovrapposizioni di ricordi creano paesaggi del tutto nuovi ma che allo stesso tempo verranno letti non dai nostri occhi ma dai nostri cuori, attraverso quelle emozioni che ognuno di noi prova quando siamo immersi nella natura. Infatti, non è possibile dare una localizzazione geografica ai paesaggi di D’Anna perché ognuno di noi nelle cime, nei colori, nei prati vedrà la “sua” montagna.
Ognuno proverà emozioni diverse; alcuni percepiranno sicurezza e tranquillità. Altri, nelle foto con condizioni ambientali avverse come una tormenta di neve, avrà la sensazione di essere davanti a un avversario temibile e minaccioso, che potrebbe trasformare il rapporto con l’uomo in una sfida. Oppure l’uomo viene richiamato al raggiungimento dei suoi obiettivi, con l’immagine di una vetta. Ma di fronte a queste regine, l’uomo si sentirà sempre piccolo al confronto.

Ognuno reagirà a modo suo, osservando queste vedute trasformate dal passare delle stagioni.
Il mio invito è quello di cercare il paesaggio che più ci assomiglia e farci avvolgere dall’energia della natura immortalata.

 

Martina Bortoluzzi

VILLA ARCONATI: la meraviglia di un’immaginazione più reale della realtà

 

Villa Arconati è luogo del sogno, della memoria e di una immaginazione più reale della realtà.

Un luogo con quattrocento anni di storia – e delle storie di chi ci ha vissuto – conserva la memoria emotiva di un passato che è stato reale, ma che oggi non lo è più, perduto come sono perduti gli usi e costumi dell’aristocrazia di un tempo. Oggi occorre, dunque, immaginare, oltre ad ascoltare percepire, osservare per poter leggere la sua storia… e continuare a scriverla.

Una storia che inizia nel XVII secolo con il sogno di Galeazzo Arconati, che in un casamento da nobile nella campagna a nord di Milano riuscì a immaginare la sua “regia villa”, in cui egli avrebbe voluto raggiungere l’immortalità attraverso l’arte: il sogno di Galeazzo Arconati è diventato realtà tangibile davanti ai nostri occhi, quando ammiriamo l’imponente armoniosa bellezza del Tiberio Colossale.
Galeazzo Arconati acquistò la scultura a Roma nel 1627 e la fece arrivare al centro del giardino di Castellazzo, perché potesse destare l’ammirazione degli Ospiti in visita. Galeazzo credeva che questa scultura raffigurasse Pompeo Magno e fosse la statua sotto la quale fu versato il sangue di Cesare. Solo all’inizio del XIX secolo questo sogno si infranse, quando Giuseppe Bossi arrivò in visita con Antonio Canova per ammirare un’altra meraviglia della Villa, i frammenti del Monumento funebre a Gaston de Foix del Bambaja, e per primo avanzò l’ipotesi che la scultura raffigurasse Tiberio.

Oggi, dunque, a noi restano il sogno infranto di Galeazzo, la memoria di quanti ammirarono con stupore e spirito critico la scultura, la bellezza senza tempo di quest’opera di quasi duemila anni che ha la volontà di continuare a emozionare chi la guarda.

Nel corso dei secoli, la Villa è stata un luogo in cui i padroni e le padrone di casa hanno cercato di comunicare se stessi e il prestigio dei propri casati, dai conti Arconati ai marchesi Busca, fino alle ultime dame Sormani e Crivelli: ogni ambiente racconta, come un libro di storia illustrato, dell’ambizione, del gusto, della personalità di chi ha passato qui parte della propria vita, quando questo luogo non si ammirava bensì si viveva, perché era una vera “casa”.

L’arte decorativa nella Villa è forse l’elemento che meglio racconta il Settecento, quando la “piccola Versailles” – come veniva definita all’epoca – aveva l’ambizione di lasciare a bocca aperta i nobili Ospiti: un tripudio di pitture a trompe l’oeil aggiunge al reale nuovi elementi irreali, che diventano in qualche modo più reali del reale, dando un nuovo livello di lettura degli ambienti, aggiungendo una suggestione emotiva ed emozionante.

La profusione dei miti classici, che ritroviamo sia nelle sculture del Giardino – dalla dea Diana ad Ercole – sia nel Palazzo con le camere dedicate alle divinità delle stagioni e soprattutto la spettacolare Sala di Fetonte, utilizza una narrazione per immagini per comunicare agli Ospiti la propria volontà di auto-affermazione.

In qualche modo il sogno di eternità di Galeazzo Arconati è stato il sogno di tutti i padroni di casa nel corso dei secoli ed in qualche modo è diventato il sogno della Villa stessa, che diventa oggi un’entità quasi personificata: non avendo più un vero padrone da “servire”, oggi la Villa riesce finalmente a vivere di luce propria, ad essere protagonista e non più strumento.
E anche l’assenza oggi si fa presenza: l’assenza degli arredi, dei dipinti, delle suppellettili che l’hanno caratterizzata come “casa” e come “luogo del passato”, oggi lascia spazio agli aloni sulle pareti così che l’occhio di chi guarda possa immaginare un passato che fu, ma anche una nuova vita per ciò che sarà.

Le sale dell’ala sud-est della Villa sono come una tela bianca, che può ospitare di volta in volta l’anima e l’arte di nuovi artisti: è un luogo sempre uguale e sempre diverso, che riprende vita grazie alla storia e alle storie che le arti sanno narrare.

Le sale, però, non perdono mai la loro personalità e il loro personale racconto, nel quale di volta in volta si aggiungono – non si sovrappongono e non si sostituiscono – nuovi mondi, nuove suggestioni, nuove storie: le decorazioni delle sovrapporte e dei soffitti a passasotto si uniscono ai mondi irreali dei trompe l’oeil, dove le porte dipinte si accostano alle porte vere, e dove i paesaggi immaginari che fanno capolino dalle parte alta delle pareti si affacciano sul paesaggio reale del parterre.

È grazie a questa meraviglia fatta di elementi immaginari più reali della realtà che la Villa riesce ad arrivare emotivamente a chi percorre le sue sale e sa essere di ispirazione per gli artisti che qui non espongono semplicemente le loro opere, bensì creano un dialogo unico, personale e irripetibile, continuando quel racconto unico che si scrive ormai da quattro secoli.

 

Sonia Corain

 

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