I Maya. Una civiltà nelle antropologie metafisiche
Pierfranco Bruni
“Sognare è la libertà di percepiremondi al di là dell’immaginazione” scrisse Carlos Castaneda.
Sono una “Illusione cosmica”. Con i tarocchi che leggono le alchimie. La civiltà del popolo Maya. Gli abissi toccano sempre il sottosuolo dell’anima. L’Occidente e l’Oriente sono un intreccio di magia e di sensualità. Le etnie sono espressioni antropologiche in cui la danza, il ballo, la musica, il canto costituiscono una priorità nel linguaggio della comunicazione tra eredità e identità. Le culture etniche, in modo particolare tra quelle culture e quei colori che intrecciano le visioni mediterranee, in un verso simbolico vero e proprio, e le culture che provengono dal mondo della dimensione maya costituiscono un itinerario in cui quelle del Mediterraneo diventano voci di popoli con gli Oceani. Una civiltà che raccontò il tempo senza misurarlo.
I colori del ceppo culturale del popolo Maya hanno un’articolazione di luci che tocca tutti gli sfondi dell’arcobaleno. Mistero e magia sono un vissuto nel quotidiano. È come se fossero i colori dell’arcobaleno che insistono soprattutto in un processo etnico in cui la magia non è mai finzione o maschera, ma visione onirica. La terra e il cielo, sono una Identità che rappresenta anche il limite e il non limite dal punto di vista metafisico e antropologico.
La terra e il cielo costituiscono il dato di un paesaggio in cui la natura è una natura che si confronta con le stagioni, con la circolarità e con il tempo. Una natura che si confronta con tutta una dimensione che è la dimensione della luce naturale e quindi del sole, della notte, del buio, delle diverse dimensioni dei colori, delle diverse articolazioni dei colori.
I deserti sono la terra. I deserti ci riportano ad un immaginario che è l’immaginario costruito, ma di fatto reale, dalle donne e dagli uomini del popolo Maya. Si pensi alle donne che portano sul capo i tessuti che scendono sulle spalle. I vestiti che indossano sono una festa di colori. È proprio una festa del colore che sembra non conoscere ombre, che sembra non conoscere i bui o il buio in sé. È la gemmatura, la fioritura di un’esplosione di luci. Gli arcobaleni.
Allo stesso modo, la terra che sembra un muro grigio, non è il muro sartriano dal punto di vista filosofico e antropologico, ma è il muro della percezione di uno scavare nell’anima. Terra metafora dell’anima. Questo deserto è fatto anche di impasti e le sfumature sono un intreccio della dimensione fissa del Mediterraneo che ha l’alchimia di una magia di albe e di tramonti. Luoghi di una metafisica dell’indissolubile. La dimensione fissa del Mediterraneo è il meridiano che attraversa le acque e le sabbie.
Il meridiano Mediterraneo è l’insieme delle luci che provengono dall’alba, dalle aurore e dalle ombre che provengono dal crepuscolo, dal tramonto. Sono rappresentate dal sole che sorge e che si depone negli orizzonti. Questo è il colore del Mediterraneo in cui il meridiano taglia queste due sfere di colori, di conseguenza la partecipazione al colore diventa una “non forma” perché è il colore che crea l’immaginario della forma, così come nei deserti che chiedono alla voce degli abissi di diventare anemone e farfalla. Una civiltà che tratteggiò il vento senza catturarlo.
Tutte queste sfumature ci portano alla tessitura di una cultura primitiva, di una cultura primigenia che soltanto i popoli che possiedono una profondità antropologica (archeologia dell’anima vera), una profondità etnica, possono esprimere. Tra questi c’è la cultura dei Maya che si confronta con il mondo azteco.
Siamo nel Guatemala, popolo di sciamani e di curandere, nella zona del Messico, vicino alle sfumature caraibiche, in quel mondo del Centro America che si spinge verso il Sud America, il perimetro caraibico che ha una profondità che è la profondità della cultura spagnola.
“La storia dei maya è di monito, affinché non si creda che soltanto le società piccole, marginali e situate in zone fragili siano esposte al rischio di crollo: anche le civiltà più avanzate e creative possono sparire”. Così disse il biologo e antropologo Jared Diamond.
Non è la cultura americana in sé. È la cultura spagnola. La lingua del Guatemala è spagnola e la Spagna ha questi colori che sono il vissuto di un ancestrale significante umano in cui il territorio dell’anima è metafisica.
Perché ha questi colori? I colori del Guatemala, i colori del Messico, che provengono da una demologia, e quindi anche a un linguaggio che è quello spagnolo, sembrano portare con sé i colori che noi avvertiamo, viviamo, Se dovessimo assistere, o se assistiamo, o abbiamo assistito, alla scenografia di una corrida.
Pensate al torero, al toreador. Quali colori porta questo personaggio così emblematico tanto caro a Ernest Hemingway? Porta tutte le sfumature che sono i colori della luce (del sole e dell’alba) e i colori della sera, ovvero i colori del crepuscolo, del meriggio, del tramonto, fino ad arrivare a quei colori che annunciano la notte. È come se dicessimo, con Garcia Lorca, alle cinque della sera si divide in fondo il paesaggio del giorno.
Dividere il paesaggio del giorno attraverso la fioritura delle ombre significa dare una forma visibile di un intreccio delle sfumature stesse, perché si gioca intorno alle sfumature. Il mio viaggio – viaggiare è rappresentato dalla metafisica delle ombre e si pone di fronte non a una divisione di colori – ombre, ma ad un intrecciare di ombre – colori. Tra le ombre e i colori parlano i tarocchi.
Ecco perché ho citato la cultura dei Maya. Perché la cultura dei Maya si identifica proprio nella semplificazione della fioritura delle sfumature e sono lampanti, “colori ombre fuoco” quando questa coloritura riprende alcuni tratti di alcune stagioni della tradizione andalusa. Mistero e magia sono un incontro.
Sono tratti più leggeri quando risiede la ricerca del colore nel luogo. Si pensi che i due colori fondamentali del Guatemala sono il bianco e il celeste, celeste che ha diverse sfumature, ma c’è il bianco. Cosa ne deriva fondendo insieme il bianco e il celeste? Fendere il sole, quindi il colore del sole, nelle sfumature del passare delle ore nelle giornate – tempo.
Tutto questo sembra offrire non soltanto un’interpretazione etno-letteraria – paesaggistica in sé, ma offre un’interpretazione antropologica, anzi direi etno-antropologica, e quando queste ombre – colori insistono, la scrittura è una scrittura che porta dentro una nuova ricerca, tutta la sua identità mediterranea che è una identità profonda, una identità che proviene da testimonianze molto antiche, testimonianze del territorio – anima che sembra invisibile e percepibile, ma diventa visibile nel cuore e percepibile nello sguardo – che sono quelle della Calabria. Una civiltà che visse gli orizzonti disegnandoli nell’anima.
C’è un’altra considerazione in questo legame antropologico ed è dato dalla percezione che si ha nel guardare il sorgere dell’alba e nel perdere l’alba nella sera. Una metafora? Certo, è una metafora. Questo insieme di sfumature non è altro che una danza, un canto, una musica.
Accanto alla cultura maya, quindi a questa civiltà del tessuto e del terreno, insiste anche il dono peruviano, andino, della cultura degli sciamani e sembra che tutto questo colore abbia come forza un grido, un urlo, che non è l’urlo disperato in sé di Munch, ma è il “grido riposato”, è il grido rivelante della pazienza. Popolo di profezie. Popolo di profeti in cammino nella proprio stanzialità.
Questi popoli, queste civiltà, sono rimasti molto fedeli a un dato concreto che è l’identità di un primitivo incipit dei paesaggi e della terra – anima. La vera identità è un dato importante e significante nelle antropologie di questi popoli che hanno vissuto e sanno vivere la grandezza di una metafisica che è il sapere dell’anima. Il popolo che lesse la terra nelle ombre del cielo e che catturò il cielo nelle orme della terra. Un popolo che raccolse i granelli dei giorni per custodirli come memoria. Poi come mistero. Dopo come magia.
Yucatan. Davanti allo specchio degli sciamani del territorio del Yucatan osservo e ascolto il tempo del mito e dei riti. Leggo: “Nello Yucatan, i Maya più antichi – dai quali gli Aztechi avevano derivato l’idea della loro scrittura – avevano scoperto il concetto di zero (ignorato invece dai Greci e dai Romani) e per mezzo della matematica e dell’astronomia, da loro elaborate, avevano inventato un calendario così complesso che potevano pensare a cicli di 144.000 giorni” (Margaret Mead). Raccontare un mistero è depositare nel mistero di una civiltà il senso della magia. La magia è voce ma anche segreti.