Afghanistan: Save the Children, più di un terzo dei bambini intervistati nel Paese è costretto al lavoro minorile, a due anni dall’inizio del dominio talebano
L’Organizzazione chiede un intervento urgente da parte della comunità internazionale, per gli aiuti umanitari e l’assistenza allo sviluppo a lungo termine ed esorta i governi donatori a non congelare o sospendere i finanziamenti in corso e quelli già esistenti destinati al lavoro umanitario nel Paese, perché questo potrebbe avere un impatto devastante sulla popolazione civile, in particolare su donne e ragazze.
Da quando i talebani hanno ripreso il controllo in Afghanistan due anni fa, più di un terzo (38,4%) dei bambini intervistati nel Paese, è stato spinto a lavorare per aiutare le proprie famiglie a contrastare i crescenti livelli di povertà e fame. Lo dichiara Save the Children[1], l’Organizzazione internazionale che da oltre 100 anni lotta per salvare i bambini e le bambine a rischio e garantire loro un futuro, che ha realizzato un’indagine sulle famiglie in sei province afghane.
Secondo l’Organizzazione, infatti, le bambine e i bambini in Afghanistan sono costretti a rischi altissimi per mantenere se stessi e le loro famiglie. Lo staff di Save the Children, infatti, ha riferito che una ragazza è stata schiacciata da un camion mentre contrabbandava merci attraverso un valico di frontiera ed è morta.
Tre quarti dei bambini (76,1%) intervistati, hanno affermato di mangiare meno rispetto a un anno fa, poiché la peggiore siccità degli ultimi 30 anni nel Paese ha compromesso i raccolti, causato la morte del bestiame e ha aggravato la scarsità di cibo e acqua per i minori e le loro famiglie. La siccità, infatti, ha colpito il 58% delle famiglie intervistate da Save the Children.
Da questa iniziale analisi di Save the Children, basata su un’indagine sulle famiglie in sei province afghane, emergono i profondi bisogni delle persone nel Paese che stanno affrontando un mix mortale di povertà, cambiamento climatico e fame. In Afghanistan, milioni di persone sono prive degli aiuti alimentari a causa dei tagli ai finanziamenti internazionali e questo dovrebbe essere un campanello d’allarme per la comunità internazionale affinché smetta di distogliere lo sguardo da questa situazione.
Sajida*, 31 anni, e la sua famiglia nel nord dell’Afghanistan sono stati duramente colpiti dalla siccità e dalla crisi economica. Sajida vorrebbe poter nutrire i suoi figli con patate, frutta e carne, ma loro possono permettersi solo riso. A due dei suoi figli, le gemelle di 8 mesi Nahida* e Nadira*, è stata diagnosticata una grave malnutrizione acuta (SAM) e sono in cura presso una clinica sanitaria mobile gestita da Save the Children.
“Non abbiamo acqua nel nostro villaggio. Andiamo in un altro villaggio e usiamo gli asini per riportare l’acqua qui. Ci sono lunghe file [di persone] in attesa dell’acqua. Tutti i contadini pregano per la pioggia, ma quest’anno sono senza speranza. Pensano che la siccità qui distruggerà la vita”, racconta Sajida che aggiunge “I miei figli vengono a dirmi: “Mamma, noi non vogliamo mangiare il riso bollito. Dateci le patate fritte. Ma con gli occhi pieni di lacrime dico: “Vorrei che avessimo le patate in cucina, ma l’unico cibo che posso cucinare è il riso bollito” dice ancora “Sono molto giovani e non sanno cosa significhi essere poveri e non avere i soldi per comprare le patate. Mi sento male vedendo le condizioni dei miei figli. Non posso dar loro una bella vita e nemmeno una porzione di buon cibo”.
L’Afghanistan è uno degli esempi tra i più crudi al mondo dell’impatto mortale che la crisi climatica sta avendo sulle famiglie che per sopravvivere dipendono dall’agricoltura. Il Paese sta affrontando il suo terzo anno consecutivo di siccità, che colpisce più della metà della popolazione.
I livelli di fame sono più alti nel nord dell’Afghanistan, dove le famiglie dipendono fortemente dall’agricoltura per sopravvivere. Qui, la siccità ha provocato fame acuta in una famiglia su tre (34,3%) nella provincia di Sar-e-Pul e una famiglia su cinque (20,7%) a Jawzjan, dove vivono Sajida e la sua famiglia[2]. Per fare un confronto, circa il 6% delle famiglie sia nella provincia di Nangarhar che in quella di Kabul, ha riportato tale situazione.
La fame non solo ha un grave impatto sulla salute fisica dei bambini, ma anche su quella psichica, perché produce ansia e depressione[3].
Le donne e le ragazze si trovano nella fascia alta di queste percentuali, con più del doppio delle famiglie con capofamiglia che vivono con una fame acuta rispetto alle famiglie con capofamiglia di sesso maschile[4] e il 17% in più di ragazze rispetto ai ragazzi che mangiano meno rispetto all’anno scorso[5].
Questa drammatica situazione ha costretto molti minori a trovare un lavoro. Secondo Save the Children, in Afghanistan è in atto una crisi di diritti dell’infanzia senza precedenti. Più di un terzo (38,4%) dei bambini intervistati, infatti, lavora per mantenere la propria famiglia e il 12,5% delle famiglie riferisce che i propri figli migrano per lavoro. Save the Children non dispone di dati dello stesso anno per le stesse provincie, in modo da essere comparabili, eppure, gli attuali dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro hanno rilevato che un bambino su 10 in tutto l’Afghanistan è coinvolto nel lavoro minorile[6].
“Da quando i talebani hanno ripreso il controllo in Afghanistan due anni fa, le condizioni per i minori e le loro famiglie sono terribilmente peggiorate. Quello a cui stiamo assistendo è una tempesta perfetta di crisi climatica, povertà e l’eredità del conflitto che infligge fame, malnutrizione e miseria a persone che non hanno fatto nulla per contribuire a nessuna di queste condizioni” ha affermato Arshad Malik, Direttore di Save the Children in Afghanistan.
“Il fatto che i minori vengano spinti verso pratiche non sicure come il lavoro e la migrazione irregolare dovrebbe provocare un moto di indignazione in tutto il mondo. Abbiamo ricevuto un recente report che parlava di una bambina schiacciata a morte mentre si nascondeva sotto un camion in movimento al confine di Torkham, poiché era costretta a contrabbandare merci. Speriamo che la comunità internazionale, che ha tagliato in modo significativo i fondi per gli aiuti alimentari, essenziali in tutto l’Afghanistan, ripenserà a questo approccio isolazionista, ricorderà i milioni di bambini innocenti le cui vite sono in pericolo e smetterà di punire loro per decisioni con cui non hanno avuto nulla a che fare” ha ribadito Arshad Malik.
Save the Children chiede un intervento urgente da parte della comunità internazionale, con lo stanziamento di aiuti umanitari e aiuti allo sviluppo a lungo termine che soddisfino i crescenti bisogni delle persone in Afghanistan. L’Organizzazione, inoltre, esorta i governi donatori a non congelare o sospendere i finanziamenti in corso e quelli già esistenti destinati al lavoro umanitario in Afghanistan, poiché ciò avrà un impatto devastante sulla popolazione civile, in particolare su donne e ragazze. I diritti dei minori, in particolare il diritto all’istruzione delle ragazze, devono essere considerati prioritari da tutte le parti interessate.
Nella sua analisi iniziale, Save the Children ha intervistato 1.207 adulti e 1.205 bambini in Afghanistan, nelle province di Balkh, Faryab, Jawzjan, Kabul, Nangarhar e Sar-e-Pul, tra l’8 luglio e il 2 agosto 2023.
Save the Children lavora in Afghanistan dal 1976, ed è lì anche durante i periodi di conflitto, cambio di regime e disastri naturali. Ha programmi in nove province e lavora con partner in altre sei province.
Da quando i talebani hanno ripreso il controllo nell’agosto 2021, Save the Children ha intensificato la sua risposta per sostenere il crescente numero di bambini con bisogni umanitari in aree precedentemente inaccessibili. Save the Children sostiene progetti su salute, nutrizione, istruzione, protezione dei fornendo alloggi, acqua, servizi igienico-sanitari, sicurezza alimentare e supporto ai mezzi di sussistenza. Da settembre 2021, Save the Children ha raggiunto più di 4 milioni di persone, inclusi 2,1 milioni di bambini.
*i nomi sono stati cambiati per proteggere l’anonimato degli intervistati