La letteratura russa negli studi di Pierfranco Bruni. Un riferimento importante
Rosaria Scialpi*
La letteratura russa e sovietica sono un perno centrale negli ultimi lavori di Pierfranco Bruni. Infatti Il suo saggio-narrativo dal titolo “Il tragico e la bellezza”, Solfanelli editore, è un viaggio circolare da Dostoevskij a Rozanov, in cui letteratura e vita si fondono, in cui l’una e l’altra hanno necessità reciproca di esistere. Vita e letteratura. Letteratura con la vita. Vita nella letteratura. Letteratura nella vita. Legami inscindibili, viscerali, lunghi l’arco di un’esistenza. Un porsi in una costante dialettica dialogica al libro che è altro da sé, si potrebbe dire se attingessimo al lessico appartenente alla didattica della letteratura. E in effetti, quella che condensa il Professor Bruni in queste pagine, è una lezione: una lezione sul come conversare con gli scrittori e le scrittrici, contemporanei o meno, approcciandosi alle loro rivelazioni su carta senza pregiudizi, ma con una tensione all’apertura e alla ricerca del senso.
Questo libro, dunque, è un viaggio, un nòstos ulissistico per la precisione, che rende possibile scavare nel profondo dell’animo dell’intellettuale in rapporto agli intellettuali russi che hanno costituito parte dell’ossatura del suo essere, in quanto uomo e in quanto scrittore. Uno sguardo che trapassa la finestra, avvolgendo l’altro da sé, anche se consapevole che il luogo dell’atto e dello svolgimento è tutto interiore, in un susseguirsi di tessiture fra essere e mondo.
Se ogni personaggio di Dostoevskij è “un tassello di quella moisacizzazione” della sua creatività letteraria, che è finzione in quanto letteratura, “ma che vive all’interno dell’esistenza del proprio esistere”, ogni autore presente in questo saggio-viaggio di Bruni è metanarrazione del suo animo, moisacizzazione della sua creatività letteraria, particella che innesca l’incendio creativo e che riempie il vivere dei giorni-naufragio.
La selezione degli autori e dei titoli pone in essere un quesito: sono forse essi, in maniera più o meno volontaria, rappresentazione pragmatica, su carta, di una ricerca costante dell’attualizzazione della verità, del “vivere senza menzogna”? O, forse, di una ricerca metafisica che, calcando letteralmente dal greco metà ta phulysikà, cerca attraverso e nella letteratura risposte a quesiti arcani, filtrati, in questo caso, da una chiave di approccio e lettura personale?
Una predilezione per l’esplorazione del “sottosuolo”, di quei meandri della mente che si incrociano inevitabilmente con il contingente, che da esso sono influenzati e che lo influenzano, in una reciprocità riproducibile solo nella Russia protocapitalista e zarista prima, ma che si avvia alla rivoluzione socialista e diviene infine prigionia dell’URSS. In ciò è sintomatico l’accostamento del futurismo russo di poeti come Majakovskij e Chlebnikov al Nobel Pasternak. Futurismo e Pasternak che hanno senso di esistere solo in virtù di quel “sottosuolo” attraversato mediante il dialogo polifonico dostoevskiano, che si insedia non solo nel testo, fra gli elementi che lo compongono, fra i diversi piani su cui si sviluppano le vicende e gli uomini-idea, ma anche fra narrazione-autore-lettore. Hanno senso di esistere, dopo essere passati attraverso il viaggio nel gorgo, in una Russia che diventa gradualmente URSS e nega alla voce di dispiegarsi nella sua pienezza e che, ciononostante, si fa canto eretico, scavalca i confini dell’oriente-occidentale russo e si rinnova nel linguaggio e negli stilemi, svecchiandosi, pur senza mai tradirsi nell’animo e nelle tradizioni, in un mondo invischiato, impantanato e costernato dalla proibizione, dal timore del gulag, dai volti segnati dai lavori, dalle leggi inumane e disumanizzanti dell’URSS in cui “anche i muri hanno orecchi”.
Alla dimensione poetica, come si ha modo di constatare, è riservato uno spazio più ampio.
L’acribia con cui i versi vengono citati, fra loro messi a confronto con il fine di rintracciare quelle linee di un itinerario, spesso non riconosciuto o negato dai molti, fra mito del Mediterraneo, con quel suo sapere millenario e figlio del vento che traghetta navi da costa a costa, e mito e valore siberiano, figlio che ha impressi nel DNA gli incontri medievali fra Rus’ e Arabi e con matrici multiple tanto quanto quelle mediterranee.
È dunque, quello poetico, un linguaggio che si infiltra anche nella parola-prosa in particolare della Russia così tanto dissimile da noi in alcuni tratti e sorella in altri? La parola russa, d’altronde, è intrisa di quel mistero mistico del vivere ortodosso, anche quando quella stessa ortodossia viene rinnegata. Nascere in Russia significa essere veicolo, a volte inconsapevole, di ciò, ma anche di eretico dissenso, di rivoluzione. Se, dunque, perno dell’opera è il ricorrente accostamento a Fëdor Michailovic Dostoevskij, non si può sfuggire dalla logica della roulette, del gioco, dell’azzardo. Azzardo che, in un’epoca di restrizioni, è rivoluzione. E dunque azzardo e rivoluzione è anche la voce inconfondibile di tutti i poeti e le poetesse citati e analizzati. Dai ricordi di gioventù delle frequentazioni con i tomi di Bella Achmadulina, in cui compaiono vele, al lontano radicarsi nel terreno dei versi tipicamente russi, la cui vis è riassumibile in due splendidi versi pavesiani, che è però poeta cantore di dicotomie territoriali e interiori: “Sei radice feroce./Sei terra che aspetta”. Terra e attesa, radicamenti profondi dei poeti russi i quali, però, sanno essere artefici di innesti interessanti e felici quando incontrano il panorama letterario mediterraneo, greco-latino e italiano in particolare. Basterebbe, infatti, pensare alla liricità rintracciata dall’autore nell’Eugenio Onegin di Aleksandr Puškin nella frase “Ho eretto un monumento a me stesso non di opera umana’’ e che, a chi scrive, sembra attingere a piene mani alla tradizione classica latina, in particolare all’Ode 30 del Libro III delle Odi di Orazio: “Ho eretto un monumento più duraturo del bronzo”.
Vita e morte. Superare la vita attraverso il permeare di sé negli scritti, che ben diverso è dalla fama. Questo fanno gli autori russi analizzati in questo volume. Innalzano monumenti e con loro Pierfranco Bruni entra in dialogo e lo fa non recidendo alcuna parte di sé e della sua poetica: nei camminamenti che da Dostoevskij conducono a Roznavov, nell’intreccio di Storia e storie, “nell’arena della loro lotta”, inciampiano profeti, inquisitori, talismani e sciamani. Simboli e protagonisti, questi, che popolano spesso le pagine vergate da Bruni, a testimonianza di quanto con la letteratura, in questo caso russa, ci sia uno sposalizio duraturo e infrangibile perché alimentato da anni di dialogo. In fondo, il russo Bachtin, esiliato come Dante Alighieri, autore che “vive nel tempo grande”, di cui qui si rintracciano i profondi echi nella letteratura russa, studiando Dostoevskij era giunto alla sua teoria più celebre: la polifonia. Cosa non è, allora, la polifonia, se non il risultato di menti che sfuggono al dramma del dialogo mancato e imparano a conoscere l’altro (in questo caso gli scrittori e le culture altre), imparando così a conoscere anche se stessi e a camminare nei corridoi del sottosuolo della mente?