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  GIOACCHINO VOLPE E LE SUE RADICI

 

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di Giuseppe Lalli

 

 

L’AQUILA – Dopo i contributi scientifici di ieri e stamattina, oggi pomeriggio una coda per così dire colloquiale, come diceva Gianni Scipione Rossi, sul rapporto di Gioacchino Volpe con le sue radici. Se dovessimo dare a questo nostro intervento un titolo, dovrebbe essere “Lo storico e le sue radici”: vale a dire la poesia con una piccola cornice storica. Né più né meno.

La nostra esposizione consisterà, come accennato da Scipione Rossi, nella lettura di alcuni brani autobiografici da parte di Fabrizio Pompei, accompagnata da qualche commento da parte mia, di brani autobiografici di Gioacchino Volpe tratti dal libro “Ritorno al paese”. Richiamo qualche dato biografico di questo nostro grande conterraneo, qualche altro cenno lo farò nel corso dell’esposizione per contestualizzare, ove si renda necessario, il brano letto.

 

Gioacchino Volpe nacque il 16 febbraio 1876 a Paganica (oggi grossa frazione dell’Aquila, al tempo comune autonomo, e lo sarà fino al 1927 – tra l’altro, ma non è questo l’argomento che tratteremo -, Volpe si oppose nettamente e con documentata argomentazione, alla soppressione della municipalità di Paganica), insieme a numerosa prole, da Giacomo, farmacista e segretario comunale, e Bianca Mori, maestra elementare nativa di Siena, donna «che parlava – come scrive con affetto nei suoi ricordi il figlio Gioacchino – la più bella lingua d’Italia».  Nacque nella contrada di Pietralata, nella stessa casa dove quindici anni prima era venuto alla luce Edoardo Scarfoglio (1860 – 1917) – cugino di Gioacchino per essere figlio di una sorella del padre – che sarà fondatore, insieme alla moglie Matilde Serao (1856 – 1927), del quotidiano napoletano Il Mattino, del quale sarà pure direttore. Chi avrebbe mai immaginato che in un remoto angoletto della provincia italiana si sarebbe dato appuntamento tanta parte della cultura italiana del Novecento.

 

Tracciando una biografia minima ma abbastanza eloquente dell’ambiente familiare, il figlio primogenito di Gioacchino Volpe, Giovanni, ingegnere che sarà anche editore, in una lettera del 1975 diretta allo storico Renzo De Felice (1929 – 1996) scriveva tra l’altro: «Eravamo sei figli, si viveva dello stipendio paterno e di qualche aiuto che uno zio agricoltore mandava a mia madre». I sei figli erano, nell’ordine di nascita: Giovanni Alberto, già menzionato, Edoarda (Tata), Arrigo (che sarà diplomatico), Simonetta, Vittorio (nato nel 1915, durante quella Grande Guerra, il suo nome era di buon auspicio per la vittoria dell’Italia) e Benvenuta, l’ultima nata: «la più piccinella e più bisognosa, ancora, di protezione», come scriveva affettuosamente Volpe nel settembre del ‘44 in una lettera all’amata moglie Elisa Serpieri. Nato dunque, il nostro storico, da piccola borghesia nel ventre profondo della provincia italiana, in uno di quei piccoli centri urbani abituati a vivere ai margini della storia nazionale.

 

Solo in due occasioni, che nel suo piccolo scritto autobiografico Volpe non manca di ricordare, in età contemporanea, Paganica parve scuotersi da questo torpore. Una prima volta accadde quando, sul finire del secolo XVIII, al tempo della calata napoleonica nella penisola, nel vicino capoluogo abruzzese scoppiarono rivolte antifrancesi. Si trattava di reazioni in cui agiva, come per certi aspetti sarebbe avvenuto più tardi anche in Abruzzo con il brigantaggio meridionale post unitario, un patriottismo, «che univa – come scrive Volpe – i ceti alti, il clero e le masse contadine fedeli al Re, alla religione, al costume avito, conservatore ma non senza una venatura socialmente rivoluzionaria». Un altro sommovimento, di diverso segno, questa volta liberale, antiborbonico, diversamente patriottico, si verificò negli anni tra il 1848 e il 1849, quando i venti rivoluzionari europei (la “primavera dei popoli”, come sarà chiamata) lambirono anche queste nostre contrade, segnando il destino di un altro Gioacchino Volpe, il nonno dello storico, «medico, cerusico, possidente e comandante della milizia», come verrà definito nelle carte processuali,  che, avendo partecipato ai moti, dovette subire una dura carcerazione (accennerò di seguito a questa vicenda). Episodi, questi, che avevano ricollegato per un momento la piccola patria paganichese alla patria più grande, quella della cui vicenda storica Volpe si sarebbe interessato lungo il corso della sua lunga ed operosa vita (vivrà novantacinque anni, e tornerà spesso nella sua Paganica).

 

Dopo queste sporadiche vicende, il borgo sarebbe tornato ad essere un ridente e piuttosto fiorente paese della conca aquilana: la “Paganica delle cipolle”, come non esitò a scrivere, accanto al nome dello studente Volpe, in un attestato richiesto allorché si trasferì con la famiglia a Santarcangelo di Romagna, un addetto all’amministrazione di quel ginnasio aquilano che il giovane Gioacchino frequentò (con poco profitto, per la verità…storica) fino all’età di 14 anni; ma anche la Paganica delle patate, dei fagioli, degli ovini: un’immagine in ogni caso assai lontana dallo stereotipo di quell’Abruzzo ancestrale delle Novelle della Pescara o della Figlia di Iorio uscito dalla fervida penna di Gabriele D’Annunzio. Le non molte pagine del piccolo scritto Ritorno al paese” (Paganica) – Memorie minime, di cui leggeremo alcuni brani, sono un racconto fresco, come le acque di queste nostre montagne che Volpe tanto amava. Non dobbiamo farci ingannare dal sottotitolo “Memorie minime”. La prosa è scorrevole, nitida, a tratti perfino luminosa, come quando l’autore rievoca, con accenti quasi epici, lo spettacolo, che lui si godeva dalla finestra di casa «delle interminabili greggi…ordinate in compagnie o battaglioni…(che) sfilavano senza tregua, un giorno, due giorni», o come quando, all’approssimarsi a Paganica provenendo a piedi dall’Aquila insieme alla sua consorte, descrive la campagna circostante come gli appare nel tepore primaverile, per poi sorprendersi, lui già affermato accademico, a bere a lunghi sorsi da una polla d’acqua alla sorgente del fiume Vera. L’opuscolo si compone di sei capitoletti, che apparvero, con gli stessi titoli, la prima volta tra il febbraio e marzo 1958 in forma di articoli sul «Tempo», il giornale di quel Renato Angiolillo (1901 – 1973) che nel dopoguerra per primo riaprì allo storico le porte della stampa quotidiana.

 

È la cronaca di un ritorno, come recita il titolo, per rivedere, dopo trent’anni di assenza, i luoghi dell’infanzia e riscoprire le proprie radici. Al centro di questa cronaca vi è una lunga passeggiata, che, l’autore, in compagnia della sua amata consorte, Elisa Serpieri, fa dall’Aquila fino alla non lontana Paganica.

 

Era l’aprile del 1920, ed io, nato a Paganica, ma milanese allora di adozione e consuetudine di vita, tornai a rivedere il natio Abruzzo. Mi fermai due giorni all’Aquila; e, in quei giorni, battei in lungo e in largo la bella, ariosa e luminosa città, che alta sopra il suo poggio, ad oltre 700 metri sul mare, vede alle sue spalle e davanti levarsi i due giganti dell’Appennino, Gran Sasso e Majella, ed ai suoi piedi scorrere fra alti pioppi e salici l’Aterno, poi Pescara. Volevo, non tanto vedere le cose nuove, su pur ve ne erano, quanto rivedere le cose vecchie, rivederle con occhi di 40 o 45 anni, dopo che le avevo viste, spesso senza guardarle, con occhi di 8, di 10, di 12 anni. I ricordi dell’infanzia mi riportarono, prima che ad ogni altro luogo, alla mia impareggiabile S. Maria di Collemaggio […].  Assai familiare era a me quella chiesa, che si leva in solitudine fuori della città. Da ragazzo, avevo abitato, per due anni, lì vicinissimo: e tutte le mattine (d’inverno, rompendo col petto la neve…), passavo lì davanti per andare a scuola, oltre un chilometro lontana. Era un pomeriggio sereno, quel giorno di aprile. Ed i marmi bianchi e rosa della facciata si illuminavano, si accendevano, fiammeggiavano, per riflesso del sole calante che dall’opposto orizzonte vi dardeggiava sopra. Da Collemaggio passai a rendere tributo a S. Maria Paganica, la chiesa dei Paganichesi, degli antichi padri miei paganichesi, quando, nel ‘200, concorsero con altri castelli della valle alla fondazione della città. Poi, ancora, la chiesa di San Bernardino, consacrata dagli Aquilani del ‘500 al grande predicatore e santo, caro a mia madre senese. […] Dopo di che, per Piazza Castello […] prendemmo a piedi la via di Paganica, che era – e gli Aquilani me lo perdonino – la vera meta del nostro viaggio, quasi pellegrinaggio. Lì avevo aperto gli occhi alla prima luce, lì sentito il tepore del primo sole, lì bevuto la prima acqua, acqua di sorgente, lì mangiato il primo pane, lì assaporato i primi frutti della terra, di quella terra, che fa noi simili a sé.

 

In quest’ultima frase si coglie quel naturalismo, che anima anche la scrittura saggistica di Volpe, cui ieri faceva riferimento il prof. Giovanni Belardelli. A Santarcangelo di Romagna, nuova residenza scelta dalla famiglia, Gioacchino lo attende un «sottile leggero luccicante cavallo di acciaio», la bicicletta compratagli da suo padre per consentirgli di recarsi tutte le mattine a Rimini, dove completerà il ginnasio iniziato all’Aquila, per poi frequentare il liceo a Pesaro. Nuova vita, dunque, e senza rimpianti; eppure, in un cantuccio della memoria, i ricordi del paesello natio non lo abbandoneranno mai. Seguono pagine tra le più luminose, ed esemplari dello stile narrativo di Volpe, capace di muoversi, nella stessa pagina, e con pari maestria, tra piani diversi: quello della memoria accarezzata e quello dell’acuta riflessione sul presente, stile ravvisabile nella sua stessa opera storiografica, che coniuga il racconto con l’analisi, come accennava ieri il Prof. Pescosolido.

 

Presente, presentissimo, il mio bell’orto di Paganica, proprio sotto casa, tutto ben cintato di mura, pieno di alberi da frutto, di viti e di verdure, formicolante di nidi, bagnato anche del mio sudore. Aiutavo mio padre nei lavori più leggeri o… più divertenti. Ma giornate serie, giornate campali, giornate attesissime, inebrianti, erano per me quelle d’estate, quando, al tramonto, un paio di volte alla settimana, irrigavamo l’orto.[…] Oppure, a primavera e in autunno, lo spettacolo delle interminabili greggi, di questo o quel grande pecoraio d’Abruzzo […], che due volte all’anno sfilavano per Pietralata, ad un centinaio di metri da casa mia. […] Ordinate in compagnie o battaglioni, ognuno con suo bravo cane in testa, dal collare irto di punte a difesa contro i lupi, e in coda il suo pastore a cavallo, lungo bastone in mano, vello di pecora o di capra addosso, zucca a tracolla; così ordinate, esse sfilavano senza tregua, un giorno, due giorni. […] Chi sa perché, quella marcia ordinata, silenziosa come di esercito, mi incantava, mi inchiodava lì per ore e ore.

 

Subito dopo, ricordando Capovere, una località non molto distante dal centro abitato di Paganica, nome che indica la sorgente del fiume Vera, un grosso ruscello che subito diventava quasi fiume e irrigava, sopra il piano di Paganica, «ogni zolla, creando – scrive il nostro autore con bellissimo ossimoro – «la povera ricchezza» dei contadini, quasi tutti piccoli proprietari, lo storico alterna espressioni di pura poesia del particolare con visione più ampia: il suolo fisico diventa metafora del suolo sociale.

 

Io non so se allora apprezzassi molto quei doni che l’acqua di Capovere, nonché il duro lavoro di quei contadini, offriva ai Paganichesi e al mondo (fagioli, e specialmente mandorle e zafferano, erano molto apprezzati anche fuori e oggetto di incetta all’Aquila e di lontana esportazione da parte di Lombardi e Toscani e Tedeschi). Solo so che quelle sorgenti, che pareva avessero una voce, la voce della terra, quell’acqua che correva da tutte le parti, che docile si prestava ai miei giuochi e lavori e quasi prendeva forma dalle mie mani, costituivano per me attrattiva grandissima. Più tardi, quando cominciai a bazzicare con gli studi storici, eguale attrattiva ebbero per me certi momenti più particolarmente creativi della nostra storia, quando nuove attività, nuovi modi di vivere, nuovi istituti, nuovi pensieri pullulano rapidamente dal suolo sociale…, come l’acqua delle sorgenti di Capovere, vicino a Paganica.

 

Analoga acuta sensibilità, quella di trattare di un grande avvenimento avendo cura di coglierne le conseguenze sulla vita ordinaria delle persone, si potrebbe dire nei piani bassi della storia, lo studioso dimostra allorché rievoca un episodio della sua infanzia, quello relativo a un soldato dell’aquilano sopravvissuto alla sfortunata battaglia di Dogali del gennaio 1887, in cui erano morti ben 500 soldati italiani, episodio che aveva segnato una battuta d’arresto nella appena avviata politica coloniale del nostro Paese e che, vissuta come un disastro nazionale, segnerà una svolta nella politica italiana, aprendo la strada al primo governo di Francesco Crispi.

 

Grande folla si raccolse una sera d’aprile o di maggio giù alla stazione dell’Aquila (ed io, trascinato da essa, sommerso in essa, ma non insensibile ai sentimenti che la animavano…), in attesa di un reduce e ferito di guerra, di un superstite di Dogali, di uno di quei Cinquecento che erano caduti quasi tutti sul posto di combattimento, dopo aver sparato fino all’ultima cartuccia […]. Infatti, il soldato, che era un fante contadino dell’Aquilano, arrivò a notte avanzata, fra fragore di bande, grida di evviva, luci rossastre di fiaccole. I più fanatici e vicini lo issarono sopra una carrozza e, staccati i cavalli, lo trainarono a braccia su in città, sino all’albergo, sempre acclamando. Poi lo vollero al balcone. E non furono paghi se non quando l’umile eroe, bianco nella sua divisa d’Africa, bianco nel suo viso ancora segnato delle recenti ferite, si presentò al balcone, a salutare e ringraziare con gesti della mano e del capo.

 

Ebbene, questo episodio, all’apparenza di folclore paesano, ci fa capire forse più di un saggio quanta emozione l’avvenimento tragico di Dogali aveva suscitato nella provincia italiana e quindi nel paese reale.  È l’irruzione, di cui si parlava all’inizio, della grande storia che lascia i suoi segni nella sonnolenta periferia, di cui si parlava. Ma a questo processo dall’alto verso il basso, fa poi subito seguito, nella narrazione di Volpe, il processo inverso dal basso verso l’alto, e così il soldatino che torna ferito dall’Africa e che vive per una sera la sua epopea, finisce per essere, nella visione dello storico, il prototipo del contadino del Mezzogiorno,

 

Quel contadino povero, affamato di terra, sempre migrante, ora con le sue pecore tra monte e piano, ora con le sue varie capacità (non esclusa l’arte culinaria e l’arte di bene servire a tavola) verso Napoli e Roma, ora col suo badile e la sua zappa verso ogni paese, in ultimo verso l’Etiopia conquistata e da conquistare. Al tempo di quell’impresa, mi dissero che nelle formazioni volontarie andate laggiù, oppure offertesi per andare, c’erano un centinaio di paganichesi […]: cento, sopra 4-5000 che sono gli abitatori di quel Comune, tutti contadini, piccoli proprietari.

 

Ma questo legame con la sua terra affidato ai soli ricordi dell’infanzia finisce per affievolirsi, come è nella logica delle cose; ma si ricostituisce su di un altro piano, meno emotivo ma più solido: quello della conoscenza dell’Abruzzo che a Volpe, dal 1895 studente della Scuola Normale di Pisa, verrà da suoi condiscepoli abruzzesi:

 

Non più solo ricordo di orti e somari, di pecore e sorgenti, ma ben altro…[…] La mia visione dell’Abruzzo, fatta sino allora solo di cose vicine e tangibili, cominciò ad arricchirsi di elementi nuovi e diversi. Fra questi compagni, Edmondo Clerici, teramano, promettente ingegno, morto poi giovane, ma non senza averci prima dato notevoli saggi storico-letterari. Votato all’ammirazione, quasi culto, di Gabriele D’Annunzio, e dannunzianeggiante lui stesso nel parlare e nel gestire, il nostro Edmondo rappresentò fra noi, non senza qualche beffa o ironia nostra, quell’Abruzzo un po’ vero e un po’ affatturato che era l’Abruzzo dannunziano. Così io feci la prima conoscenza dello scrittore abruzzese e del suo Abruzzo.

 

Un debito di riconoscenza Volpe lo esprime anche nei confronti del suo professore di storia medievale e moderna, Amedeo Crivellucci (1850 – 1914), straordinaria figura di storico che aveva fondato una rivista sulla quale si esercitavano i suoi allievi, e che si stampava in una piccola tipografia impiantata nella sua casa di campagna.

 

Fra l’abruzzese e il marchigiano […], Crivellucci aveva per noi anche un altro nome, «Sciabolone», suggerito, oltre che dalla statura, dal titolo di un suo libro, dedicato ad Il Brigante Sciabolone, capobanda o capomassa – uno dei tanti –  che, fra ‘700 e ‘800, capeggiarono nelle nostre città e campagne le resistenze e le insurrezioni popolaresche e contadinesche fra l’Ascolano e l’Aquilano, provincie finitime, contro Francesi e loro alleati nostrani. […] Ne seppe qualcosa anche l’Aquila che i Francesi vollero liberare dalla tirannide borbonica, le masse liberare dai Francesi, di nuovo i Francesi liberare dalle masse. E furono, ora in ultimo, tre giorni di saccheggio e licenza soldatesca. Decine di morti, anche preti e frati. Il convento e la chiesa di San Bernardino invasi, violata la tomba del Santo e rubata la cassa d’argento, pregevole opera d’arte.

Era, questa dolente istoria, abruzzese e italiana, la storia drammatica di due patriottismi: quello antifrancese e conservatore (ma non senza una sua venatura socialmente rivoluzionaria anche esso) dei ceti più alti, del clero e delle masse popolari e contadine, fedeli al Re, alla religione ed al costume avito; e quello dei «patrioti» o «giacobini», alleati coi Francesi, cioè il nuovo patriottismo liberale, il patriottismo, presso a poco, che poi trionfò, quello che noi giovani studenti accettavamo. E io mi ricordai, facendomene qualche vanto con i miei compagni, di un altro Gioacchino Volpe, possidente e medico di Paganica, mio nonno, che avendo partecipato da liberale a moti aquilani attorno al 1840, aveva sofferto il carcere, e di quelle sofferenze era, dopo uscito di là, morto ancor giovane: donde la cospicua pensione di 25 lire annue che mio padre, rimasto orfano a dieci anni, ancora riscuoteva, come “vittima politica”, e seguitò a riscuotere fino a che visse, 1929.

 

Parlando dei moti contadineschi, in un punto il nostro raggiunge la vetta suprema dell’ironia: «Ne seppe qualcosa anche L’Aquila, che i Francesi vollero liberare dalla tirannide borbonica, le masse liberare dai Francesi, di nuovo i Francesi liberare dalle masse». C’è da chiedersi chi fossero i veri “liberatori” e chi fossero i veri “tiranni”, e soprattutto che fine hanno fatto le masse, che rimangono “popolari”. È una domanda che ci facciamo da più di duecento anni, noi meridionali. Dedicheremo al tema un altro convegno. Ironia a parte, un breve commento merita poi la vicenda nella quale fu coinvolto il nonno dello storico, notizia che a Volpe perviene da una tramandata memoria familiare e che egli colloca, con approssimazione, attorno al 1840, come abbiamo letto. L’episodio trova un preciso riscontro presso l’Archivio dell’Aquila in un fascicolo relativo ai cosiddetti «Fatti di Paganica». Si trattò di una sorta di faida civile tra opposte fazioni politiche (una filoborbonica, l’altra repubblicana, che potremmo meglio definire tardo-carbonara), una vicenda assai composita, in cui, come spesso accadeva nelle nostre comunità chiuse, alla contrapposizione politica si aggiunsero motivi di risentimento personale e familiare, e che si concluse senza spargimento di sangue alla fine di luglio del 1849, quando un distaccamento militare, ristabilito l’ordine, traeva in arresto alcuni presunti liberali e repubblicani, tra cui il nonno dello storico: tutti accusati di far parte di una congiura finalizzata a sovvertire l’ordine costituito. Il processo che ne seguì, e che vide alla fine ben 62 imputati, non tutti paganichesi, si concluse, nel 1851, con dure condanne: 19 in tutto, tra cui quella, a un solo anno di reclusione, di Gioacchino Volpe.

 

Ciò che colpisce in questa vicenda è la presenza tra gli imputati – ben i due terzi – di persone appartenenti alle classi popolari (artigiani e braccianti), nonostante la delusione che avevano subito nella precedente rivolta antiborbonica dell’Aquila di qualche anno prima (1841), che aveva visto protagonisti una parte del patriziato aquilano e un numero cospicuo di artigiani e che era fallita, oltre che a motivo della inadeguata direzione politica, per la complicità con il potere costituito di una certa borghesia cittadina, mercantile e burocratica, quella stessa borghesia trasformistica meridionale che poi passerà disinvoltamente dai Borboni ai Savoia.  Ebbene, nonostante ciò, si ha l’impressione che a Paganica, tra il 1848-49, il ‘popolo’ di Mazzini, pur tra limiti e contraddizioni, abbia risposto all’appello. Per tornare a Volpe, dopo la laurea a Pisa, una collaborazione a Napoli alla redazione del quotidiano “Il Mattino” guidato da suo cugino Edoardo Scarfoglio, il perfezionamento all’Istituto di Studi Superiori di Firenze e un breve incarico di professore in Abruzzo, a Città S. Angelo, nel 1905 vince il concorso per la cattedra di storia moderna bandito dall’Accademia scientifico-letteraria di Milano, dove prenderà servizio come straordinario nel febbraio del 1906. A Milano resterà per vent’anni. Nel 1925 si trasferisce a Roma nella nuova Facoltà di Scienze Politiche per insegnarvi “Storia della politica moderna”, e dal 1936 “Storia moderna”. Si riavvicinerà, insomma, al suo Abruzzo e alla sua Paganica.

 

Venti anni di Milano. Grande città, operosa, ricca, generosa città, sempre la prima a dare, quando si tratta di dare. Io personalmente, poi, non dimentico che lì sono nati i più dei miei figlioli, lì ho maturato molti miei lavori, lì ebbi molti scolari con cui sono rimasto sempre legato di affettuosa amicizia […] Eppure io, abruzzese, montanaro, «terrone», stentai non poco ad acclimatarmi: come stenta ad attecchire e crescere un alberello trapiantato in terreno non suo. Strapaese in Stracittà. Ci fu sempre, fra me e la grande Milano, come un tenue diaframma, fatto di nulla, ma pur fatto di qualche cosa: lo stesso diaframma che un uomo del Nord poteva avvertire scendendo al Sud. Ecco qui. […] Così, un po’ per volta, con lenta marcia di avvicinamento, fattasi più sollecita con la guerra, io tornai idealmente verso l’Abruzzo o esso tornò verso di me. E ora, primavera del 1920, vivido io di ricordi d’infanzia, legatomi nel frattempo con tanti abruzzesi espatriati, infarinato di storia d’Abruzzo, sospinto dal desiderio d’Abruzzo che gli anni avevano risvegliato in me; ora eccomi all’Aquila e, dopo un paio di giorni aquilani, incamminato, con la mia donna, verso Paganica. […] Davanti a noi, in alto, in basso, attorno, aspre nevose e fredde montagne, e pendici di nuda roccia rossastra: ma anche, un piano tenerissimo di verde, qua e là luccicante di acque; e su quelle rocce stesse, tutta una fiorita di mandorli bianco e rosa, che davano un senso come di tepore primaverile. […]. Tutto si vedeva nitidamente, in quel mattino sereno. Giunti al piano,[…] C’era lì Tempera, con i suoi mulini, con la Vera che vi corre in mezzo placida, limpida, profonda; c’era il sentiero, tutto pioppi e salici, che, risalendo per breve tratto il torrentello, quasi fiume, giunge a Capovere. Ed ecco il professor Volpe lungo disteso sulla polla più grande, liberato da tutte le sue istorie e ridiventato creatura elementare, a bere, bere, bere, come un bimbo ingordo e affamato che si attacca di furia al capezzolo materno. E poi, subito dopo, Paganica.

 

Sulle prime il paese e il suo figlio tornato dopo trent’anni non si riconoscono, e quasi si annusano: ecco la piazzetta di Pietralata, ecco la piazza maggiore con al centro la fontana che Gioacchino bambino vedeva sempre affollata di donne che andavano a riempire le conche di rame lucide, ecco la grande Villa del Duca col suo grande giardino, ecco il Municipio dove lui, sempre presente quando suo padre, in funzione di sindaco, celebrava i matrimoni, riceveva il rituale cartoccio di confetti…ma poi il contatto sarà più forte.

 

Cominciò poi qualche più vivo contatto con le persone. […] Ecco donna Concettina, ecco donna Amalia, ecco Aghituccia, donna del popolo, che una volta sfaccendava sempre in casa nostra e parlava, scriveva un suo linguaggio immaginoso e poetico. E questo è Luigi, sì, Luigi, il contadino bracciante che, unico, era venuto a salutarci alla stazione, trenta anni prima, ora vecchio, tremulo, ma con gli occhi che gli ridevano. E poi Giustinello, fratello di Luigi; Giustinello, il ciabattino della contrada di Pietralata, il primo e maggiore amico della mia infanzia, da cui avevo imparato tante cose, come si prepara la suola, come si impecia lo spago, come si affila un coltello, ma specialmente questa: come si fa il presepe, un presepe con le sue montagne piene di neve, con le sue acque a cascata, i suoi pastori e le sue pecore, i suoi asini carichi di doni: insomma, un presepe…fatto ad immagine dell’Abruzzo. […] Così mi rituffai per qualche giorno a Paganica, ripresi dimestichezza con quelle strade, stradette, sentieri, con quei campi, con quei rivi, con quelle sorgenti. E mi parve di ridiventar paganichese. Durò pochi giorni. Ma dopo di allora, quasi ogni anno sono tornato a Paganica. Anche perché ormai non c’era più, fra me ed essa, la grande distanza di prima. Da Milano il ministro Gentile mi volle nel 1925 a Roma, per la Facoltà che intendeva fondare. E fu per me quasi un rimpatrio.

 

Ma non solo Paganica, ma l’Abruzzo in generale sarà la meta ambita dei suoi giorni di riposo o di ricerca della giusta concentrazione:

 

Volevo, dopo aver praticato nella mia vita ogni sport, ciclismo e podismo, nuoto e remo, corsa e palestra, lotta e braccio di ferro; volevo prima di invecchiare, veder come è fatto lo sci, che cosa è una volata in slitta, giù per un ripido pendio nevoso? Ed eccomi con i miei figli più grandi Giovanni, Edoarda, Arrigo, a Roccaraso, dove “zi’ moneca” (una «monaca di casa») teneva una specie di alberghetto familiare.  Volevo isolarmi dal mondo per lavorare in pace, per finire o avviare un lavoro? C’era Pescasseroli, nell’alta Marsica, fra grandi boschi. […] Volevo riposare una due tre settimane? C’era Francavilla a mare, che consentiva rapide corse alle piccole città dell’Abruzzo adriatico, poco noto a me.

 

Oppure, c’era il Vasto, non la città ma la località sulle pendici del Gran Sasso, sopra Assergi (abbiamo tanto parlato di Paganica, adesso nominiamo il mio paese). Ed è al ricordo di una di queste gite al Vasto insieme ai suoi figli che Volpe, con quell’autoironia che mai lo abbandona, affida un suo vecchio dubbio sulla sua vocazione di storico. Ma noi che leggiamo queste pagine non abbiamo dubbi sulla sua vocazione: Gioacchino Volpe fu un intellettuale con la stoffa del contadino. Per lui il legame con la piccola patria (l’Abruzzo e Paganica), per quanto forte, fu, come si coglie in queste stesse pagine, premessa del rapporto con la patria più grande, quell’Italia che seppe raccontare perché non smise mai di amare.

 

Che si poteva, che si doveva fare lì, al Vasto? Starsene lunghi distesi, ore e ore, al margine di quel piano erboso, sotto grandi alberi di noce. Assistere alla pesca delle trote destinate alla mensa, in certi minuscoli laghetti. Andare di primo mattino alla ricerca di acqua sorgiva e abbeverarsene. Conversare con gli animali. Trovai lì, vicino al casale, la mattina appresso, un asinello da latte che se ne stava poco distante dalla sua mamma: arrivato lì, un passo dopo l’altro, da qualche vicino casale. Appena mi vide, si staccò dalla madre, si avvicinò a me, come ad un amico di famiglia, mi si strofinò addosso, mi cercò le mani, prese in bocca un pezzetto di pane, lo mangiò con qualche stento, ma con gusto crescente […]. Poi, alzò il capo, tese il collo, modulò, con molte note false, un suo canto o raglio. La scena si ripeté i giorni appresso. […] Così passai giorni lieti, fino a che spuntò quello di partenza. Ci avviammo giù per la valle: io col mio zaino in spalla, aprivo la marcia, a qualche distanza dagli altri. Ma dopo mezz’ora, ecco, dietro di me, uno scalpitio rapido e lieve. Mi volto…Era il mio asinello che mi cercava. Voleva venire con me? Rimproverare me di non averlo salutato alla partenza? Ci volle del bello e del buono, grida e mani levate in alto a minaccia, perché l’asinello tornasse indietro. Quel giorno, tornò ad affacciarsi in me un dubbio antico: se, per avventura io non fossi nato con la vocazione del contadino abruzzese, anzi paganichese, almeno come esso era allora, sempre vicino alla terra, alla pecora, all’asino, al maiale, piuttosto che con la vocazione del raccontatore di storie.

 

C’è una frase, tratta da Lettere dall’Italia perduta, edite nel 2006 da Sellerio a cura di Giovanni Belardelli, con la quale mi piace concludere questa piccola antologia, che Volpe scrive al figlio Giovanni (Nanni) in una lettera del luglio del ‘45, a guerra appena finita, che ben sintetizza la qualità del rapporto che lo legava alla sua terra: «Caro Nanni, torno dal mio natio Abruzzo, dalla mia più che natia Paganica, sostanza della mia carne». Non c’è nulla da aggiungere.

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