Gli Indiani introdotti alla sua presenza quasi sempre si inchinavano profondamente, ma spesso Gandhi troncava questi convenevoli allungando loro una manata sulla schiena. Allora si sedevano per terra a gambe incrociate, e il colloquio cominciava.
76 anni fa uccisero Mohandas Karamchand Gandhi. MOHANDAS KARAMCHAND GANDHI, il Mahatma (“grande anima”, in sanscrito), traducibile pure come “venerabile” (il nostrano cattolico Santo) – esordisce Paolo Battaglia La Terra Borgese – dirigeva un piccolo settimanale in lingua inglese, Harijan (creature di Dio). Nel 1946, quando la missione ministeriale inglese pubblicò il suo progetto per dare all’India un governo nazionale, la vera questione non era: «Accetteranno gli Indiani il piano britannico?» bensì: «Lo accetterà Gandhi?» Perché Gandhi era la maggiore potenza in India.
Gandhi si concesse «quattro giorni di attento esame» – puntualizza Paolo Battaglia La Terra Borgese – e poi scrisse un breve articolo su Harijan, in cui dichiarava che «nelle attuali circostanze, il Consiglio dei Ministri ha divisato il mezzo più facile e più rapido per metter fine alla dominazione britannica». L’articolo non solo fu riportato da tutti i giornali indiani, ma fu anche trasmesso telegraficamente a Washington per essere sottomesso allo studio di alti funzionari, e fu largamente citato dalla stampa inglese e da quella internazionale.
Subito di seguito all’esame critico della storica proposta inglese per la liberazione dell’India, Harijan pubblicava un altro articolo a firma del Mahatma, dal titolo «Il nocciolo del seme di mango» nel quale Gandhi vantava le proprietà dietetiche di questo seme «ottimo come sostituto dei cereali e del foraggio».
Quel numero di Harijan – spiega Paolo Battaglia La Terra Borgese – rifletteva la personalità di Gandhi e la sua multiforme attività, nata dal suo interesse per la vita dell’individuo. In un articolo egli definiva il concetto dell’indipendenza indiana, in un altro auspicava una riduzione nel consumo dello zucchero destinato alla fabbricazione di dolciumi, in un terzo trattava il problema della delinquenza, in un quarto esaminava le possibilità d’impiego delle arachidi. Per Gandhi, il santo, il Mahatma, l’alta politica non era troppo grande, né le noccioline troppo piccole.
Forse la cosa che più stupisce in quell’uomo straordinario è quella che era il suo vivere in pubblico H24 senza il minimo disagio. Il suo letto era un materasso steso sul pavimento di un loggiato della Clinica per le Cure Naturali del dottor Dinshah Mehta, a Poona (Il dottor Dinshah aiutò il Mahatma Gandhi a fondare l’Istituto Nazionale di Naturopatia). Il loggiato era a pianterreno, e diversi discepoli dormivano accanto al maestro.
Alle quattro del mattino si sentiva il Mahatma che recitava le preghiere con i discepoli – prosegue Paolo Battaglia La Terra Borgese -. Dopo le preghiere beveva il solito succo d’arancia o di mango, poi sbrigava la sua corrispondenza, a mano. Aveva più di 70 anni, e la sua scrittura era chiara e ferma. Vedeva e sentiva bene e sperava di vivere fino a 125 anni. Una volta il giorno, Rajkumari Amrit Kaur, una donna cristiana di famiglia principesca indiana che aveva rinunciato a tutto per servire Gandhi come segretaria di lingua inglese, gli leggeva le notizie del giorno dai bollettini in ciclostile di un’agenzia d’informazioni britannica. Gandhi non leggeva mai giornali e non ascoltava la radio.
Ma l’India – afferma Paolo Battaglia La Terra Borgese – giungeva a lui in migliaia di lettere e centinaia di visitatori. Ogni visita era regolata sull’orologio del Mahatma, un cipollone di nichel da pochi soldi, che lui portava appeso allo spago che reggeva il panno di cotone tessuto a mano con cui si cingeva le reni. Era puntualissimo, sempre immacolato, e faceva tutto con gusto elegante, specialmente parlare, camminare, mangiare e dormire.
Amava la pioggia, Gandhi – c’informa Paolo Battaglia La Terra Borgese – si nutriva esclusivamente di verdure crude e cotte, frutta fresca e secca, budini di latte e focacce indiane, sottili come la carta. Non mangiava mai uova, carne o pesce, non prendeva caffè, tè, alcolici. La sua energia sbalordiva. Non andava mai a dormire prima delle dieci: e certe volte diceva che se avesse pregato di più avrebbe dormito meglio.
Da Poona a Bombay, in un viaggio di tre ore e mezzo di terza classe, con dure panche di legno e mentre pioveva a dirotto, Gandhi scrisse un articolo per Hariian; poi parlò con i capi politici che erano saliti sul treno per avere un colloquio con lui. A tutte le stazioni, nonostante il diluvio, la gente accorreva in folla per vederlo, e durante una fermata numerosi bambini, inzuppati fino all’osso, rimasero davanti al finestrino strillando «Gandhiji! Gandhiji!» (Il suffisso «ji» è una forma di rispetto.)
Uno degli scopi che Gandhi si prefiggeva era quello d’indurre gli Indù di casta elevata a desistere dal loro trattamento disumano dei paria, o intoccabili – chiarisce Paolo Battaglia La Terra Borgese -. Obbligò molti templi sacri indù, chiusi da secoli ai paria, ad accogliere questi reietti; e sebbene fosse egli stesso un Indù di casta elevata, s’identificava con gl’intoccabili per convincere gli altri col suo esempio.
Gli Indiani introdotti alla sua presenza quasi sempre s’inchinavano profondamente, ma spesso Gandhi troncava questi convenevoli allungando loro una manata sulla schiena. Allora si sedevano per terra a gambe incrociate, e il colloquio cominciava. Tutti quelli di casa potevano entrare e ascoltare: spessissimo, sulla soglia della stanza di Gandhi (priva di porta), quelli che arrivavano trovavano allineate dieci o più paia di sandali e di scarpe, e dopo essersi scalzati anche loro sedevano con gli altri sulle stuoie di paglia. Ma normalmente – precisa Paolo Battaglia La Terra Borgese – il colloquio si svolgeva soltanto tra Gandhi e la persona alla quale aveva concesso un appuntamento. I primi ministri delle province indiane, membri del Congresso, andavano a chiedergli consigli e istruzioni; gli educatori andavano per sottomettergli le loro idee; chiunque avesse un progetto cercava la sua benedizione. Anche coppie d’intoccabili, scontenti della loro vita matrimoniale, andavano a narrargli i loro guai, e Gandhi passava lunghe ore con loro. Contadini e operai si rivolgevano a lui per aiuto.
La religione di Gandhi si basava sulla fede in Dio e in se stesso quale strumento del volere divino, e sulla non-violenza come mezzo per giungere alla beatitudine in cielo e alla pace e al benessere sulla Terra. Ecco cosa rispondeva Gandhi – riporta Paolo Battaglia La Terra Borgese – a chi gli chiedeva perché non predicasse la non-violenza anche all’Occidente:
«E come potrei, se non ho nemmeno convinto l’India? È tutto fiato sprecato, il mio.»
Gandhi conosceva l’indole violenta e insofferente della gioventù del suo Paese e sapeva che se gli Inglesi si fossero rifiutati di rinunciare pacificamente al potere, l’incendio sarebbe divampato in tutto il subcontinente indiano, portandosi via ogni traccia di dominazione straniera. L’Asia era stanca di essere sotto la “tutela” dei bianchi; e anch’io mi rendo conto – scrive Paolo Battaglia La Terra Borgese – che c’era una coscienza sempre più profonda dei conflitti tra razza bianca e razze di colore.
Gandhi dedicò tutta la sua vita all’indipendenza della patria – è storia, evidenzia Paolo Battaglia La Terra Borgese -: ma non voleva ottenere questo scopo attraverso la violenza. Durante la campagna della disobbedienza civile, che egli proclamò nel 1943, i socialisti praticarono il sabotaggio, organizzarono un movimento di resistenza clandestina, si opposero con la forza alle autorità: tutte cose non ammesse dal codice di resistenza passiva di Gandhi.
Quando parlava il Mahatma, il mondo intero appariva riflesso nello specchio dell’India. Per lui, un colloquio con un alto funzionario britannico e la coltivazione delle arachidi avevano lo stesso scopo: il benessere di 400 milioni di Indiani (oggi circa 1,4 miliardi di persone). Credo che nessuno in India – riflette Paolo Battaglia La Terra Borgese – fosse più amato e più influente di lui: gli Indù adorano un solo Dio, ma hanno anche dei e idoli, e immagini di Gandhi che venerano in alcuni templi indù.
L’Oriente, sebbene oggi in ripresa, è ancora cosi affamato, cosi cencioso e infelice che pensa col suo stomaco, vede con la sua nudità, sente con la sua infelicità. Le sue moltitudini hanno un reverente timore dei potenti, ma danno il loro amore soltanto a coloro che rinunciano al vantaggio personale per dedicarsi al bene della comunità. Gandhi era uno di questi: e se anche molti Indiani potevano dissentire da lui, tutti ne rispettavano la sincerità, la saggezza, il culto della verità.
Mohandas Karamchand (Mahatma) Gandhi era nato il 2 ottobre 1869 a Porbandar, nell’India occidentale. Visse fino a 78 anni, un’età eccezionalmente avanzata per un Paese dove, secondo le statistiche ufficiali, la media della vita era di 27 anni. Anche cosi, Gandhi – scrive Paolo Battaglia La Terra Borgese – non mori di morte naturale. Si stava recando a una riunione di preghiera, a Nuova Delhi, quando fu ucciso a revolverate da un giovane indù estremista, il 30 gennaio 1948. Meno di cinque mesi prima, il Mahatma aveva ottenuto una grande vittoria personale, con la proclamazione dell’indipendenza nazionale dell’India, fatta dagli Inglesi.
«Le porte del paradiso aspettano di accogliere Gandhi» disse una volta un cinico finanziere di Bombay. Ma Gandhi le lasciò aspettare fino a che non ebbe portato un poco di paradiso in Terra.
MEDICINA NATUROPATICA
Gandhi condannò molto severamente la vivisezione – chiude Paolo Battaglia La Terra Borgese -, riconoscendola e presentandola come simile alla magia nera: «Il mio amore per la cura naturale e i sistemi indigeni non mi rendono cieco ai progressi compiuti dalla medicina occidentale, malgrado l’abbia stigmatizzata come magia nera. Ho usato quella dura espressione (e non la ritiro) perché essa ha contemplato la vivisezione e tutto l’orrore connesso, perché non si ferma davanti a nessuna pratica, per quanto maligna possa essere, pur di prolungare la vita del corpo e perché ignora l’anima immortale che risiede nel corpo.»