Dito, occhio e ginocchio
di lorenzo merlo
L’inferno è anche l’assolutismo del razionalismo. Esso lo crea. Essa non sa spiegarlo. Sa solo far finta non esista.
La suggestione
L’assolutismo del razionalismo costringe il pensiero entro dinamiche meccanicistiche. Cioè, costringe a concepire l’uomo alla stregua di una macchina che veste la scienza con l’illuministica camicia di forza che la vincola a stringere la conoscenza entro le sue regolette autoreferenziali. Le impone di riconoscere la verità attraverso la scomposizione del tutto; riduce alla sola logica tutta la realtà, assumendosi il diritto di escludere da essa quanto non è in grado di descrivere.
Con questo peso addosso che chiamiamo cultura e civiltà, ogni aspetto dell’esistenza pare muoversi su uno sfondo positivista che avanza secondo una progressione temporale e lineare, che da origine alla suggestione del prima e del dopo. Nonché a quella secondo cui tutto è soggetto alla regola del causa-effetto.
A queste condizioni capestro, imposte da un mazziere poco di buono, per quanto si chiami Storia, viene costretto tutto. Tra cui, la medicina allopatica, indiscusso asso nella manica del castello di carta del meccanicismo. Un altro ne è la – mai vista – democrazia. E un altro ancora sta nella comunicazione creduta implicita nel comunicato. L’idea che ognuno di noi abiti il suo esclusivo mondo, non esiste se non in contesto psicoterapeutico e in alcuni contesti didattici. Perciò, anche l’apprendimento e/o la conoscenza, ridotta a messe e massa di dati, buoni per girare un bullone, ma tragicamente inutili per l’evoluzione dell’uomo.
Ricchi di questo potere accecante – leggi arrogante –, i probiviri della bandiera scientista non si avvedono dell’infinito che la loro idolatrata dottrina esclude dal mondo. Sono impediti dal riconoscere che la comprensione cognitiva è, tra tutte le forme di conoscenza, la più superficiale. Credono infatti che basti parlare per trasmettere consapevolezze a suon di dialettica logica. Accecati dall’arroganza razionalista non vedono che è un’ottusità. Un evento che potrebbero constatare quasi ad ogni istante della vita. Tant’è che se glielo fai presente ti deridono dalla loro carrozza della verità, con la quale scorrazzano per i sussidiari e i breviari di tutti i loro adepti.
E se le loro erudite affermazioni non producono i risultati pretesi, non hanno incertezze nel giudicare, escludere, condannare il reo non allineato e allineabile. Non sospettano la potenziale forza del firmamento di consapevolezze che ognuno di noi ha nel proprio cielo, le cui stelle, costellazioni e galassie, non si illuminano a causa di una logica spiegazione, ma per un’emozione, che un professore non ci farà mai vivere e che una cameriera è invece sempre capace.
Non essere consapevoli che le illuminazioni che chiariscono a noi stessi chi siamo e dove sia la nostra strada avvengono per emozioni, comporta misconoscere gli uomini e la loro realtà, comporta il diritto di mannaia e censura delle voci avverse, da parte dell’ordine costituito, sui cui scranni sono seduti gli ignoranti dediti alla venerazione della quintuplice unità del dogma materialista, meccanicista, positivista, razionalista, scientista. Così, Nietzsche, Maturana, Bateson, Prigogine, Morin, Panikkar, Illich, Goethe, Jung, Heisenberg, Eraclito, Platone, Buddha, Cristo e le Tradizioni sapienziali sono stati ridotti a dati da studiare e accumulare per il 18 e andare avanti lungo i binari della loro verità di superficie.
La loro, è una corsa senza ostacoli, né rivali. Senza saperlo (?), puntano tutto – e vincono – sulla quantità. Chi tace e si adegua avanza, chi non capisce e critica è estromesso: eccola qui la democrazia applicata. In cabina di regia della cultura ci sono loro, che chiedono il computer alle elementari, che osannano l’intelligenza artificiale, che stravedono per i progressi della tecnologia, che promulgano leggi degne dei peggior stati totalitaristici; politiche sfacciatamente destinate a decimare gli inutili e a controllare i più; a generare un sistema sociale a punteggio. Serve altro per riconoscere il maglio meccanicista? Altro per avvedersi di quello spiritualmente mortificante? Per prendere coscienza che crescere uomini convinti di essere limitati a se stessi, cioè definitivamente recisi dalla loro origine unica, non ne farà che esseri destinati all’inferno? Siamo in un gorgo dove nuotare per uscirne non serve più. La corrente sovrasta tutto. Bisognerà arrivare in fondo prima di vedere una rinascita.
Gli idolatri del mondo logico-razionale sono ovunque. È la somma dei loro piccoli entusiasmi che genera il vortice. Sono anche tra le pieghe degli alternativi. Recentemente mi sono visto cassare un articolo di carattere evolutivo-esistenziale in quanto non si concludeva con dei consigli utili. Sono inorridito. Non per l’articolo cassato, ma per l’abiura che gran parte di noi ha compiuto a favore del pensiero unico cioè, nei confronti della crescita esistenziale, quella che nella serenità ha la sua destinazione.
“In nessuna circostanza il saggio deve turbare le menti delle persone ignoranti attaccate alle azioni. Al contrario, impegnandosi continuamente in attività, l’Essere Illuminato deve creare nell’ignorante il desiderio per le buone azioni”. (Bhagavad Gita cap. III, v. 26)
Capire e ricreare
Capire non conta nulla. Capire riguarda la superficie. Su essa tutto e il suo contrario si riflettono e mutano, convincendoci istante per istante che ognuno contenga la verità.
Ricreare è necessario. Ricreare riguarda il corpo che la superficie nasconde. Ricreare fa nostro, come è nostro il dito, l’occhio e il ginocchio. E questi esprimeremo, in tutti i modi della nostra presenza. E questi non dimenticheremo. Come non dimenticheremo che ugualmente così sarà per gli altri, universi diversi dal nostro.
Capire riguarda la dimensione cognitiva, la più superficiale tra quelle disponibili agli uomini. La sua natura è intellettuale, quindi cangiante e impermanente. Ricreare coinvolge integralmente, il suo corpo e la dimensione emozionale, quindi costituente e permanente.
Come – oltre alla cameriera – qualunque cosa può scatenare in noi l’emozione necessaria per fare luce su quanto ci era oscuro, così la modalità serendipidica di esplorazione e apprendimento, permette di mantenere autonomia di pensiero. Ovvero, di quel terreno da cui scaturisce la realtà. Ci permette cioè di riconoscere le ideologie o idolatrie, di starne alla larga, e anche di avvedersi quando invece ci siamo caduti dentro. Una coscienza di sé che tende a produrre una politica e quindi una società non più mortifera come l’attuale.
Disegnando un albero, lo riconosciamo come nostro. Un’identificazione che non avviene nei confronti dell’albero uscito da mani altrui. La descrizione razionale e la comprensione cognitiva di cosa sia e di come debba essere un albero non conterà nulla, non costituirà nulla di noi, non sarà mai un nostro dito, e sarà invece sempre un indottrinamento, cioè una via senza cuore (Castaneda), ma verso l’inferno.
Tutto ciò con cui entriamo in relazione ha il potenziale di essere un messaggio nella bottiglia, con la mappa del tesoro che è in noi. Quel messaggio, quella bottiglia, quel momento esprimono la verità del Tao. In cui è la contemporaneità che conta, che esprime il significato. In che altro modo si potrebbe cogliere il potere illuminante di un’emozione scaturibile in ogni istante a mezzo di qualunque forma? Diversamente, come pretendeva quel sito web che voleva il consiglio positivo a fine articolo, tipo la bella vita in 10 lezioni, quale requisito per pubblicare il mio pezzo, si resta fermi al prima e al dopo, al causa-effetto, alla concezione lineare e alla convinzione che l’esperienza sia trasmissibile, e perciò a dare consigli, a cercare proseliti. Quindi, a perpetuare questa cultura e civiltà dell’ignoranza. Nel qui ed ora del Tao è presente il Tutto. Nel presente in cui si esprime, nulla manca, neppure l’eternità.
“Esse [le vane ambizioni umane, nda] indurrebbero ad aumentare conoscenze e ricchezze, ma in questa crescita si smarrirebbe l’essenziale […]”.
Attilio Andreini, Maurizio Scarpare, Il daoismo, Bologna, Il Mulino, 2024, p., 27.
Il mistero, di cui la logica tenta di sbarazzarsi, in quanto inetta a muoversi e dominare sui terreni non misurabili e oltre le tre dimensioni della materia, contemporaneamente lo crea attraverso le sue domande e le sue ricerche analitiche. Le stesse modalità che generano la peggior condizione esistenziale, quella che i cattolici chiamano infernale, in cui viviamo prede dell’ingorgo dell’effimero eletto a valore e verità da questa cultura.