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Kafka riletto magistralmente da Pierfranco Bruni in in racconto tra letteratura e filosofia 

di Rosaria Scialpi

Il filosofo contemporaneo Charles Larmore afferma che ogni ‘io’ è tale in virtù di un essenziale rapportarsi a se stesso. Tale conoscenza dell’io, che per il filosofo ha carattere prettamente pratico-normativo dell’autoesperienza, avviene nella sfera della connessione fra credenze e comportamenti e implica uno spostarsi all’esterno di sé.

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Ma come è possibile ciò?

Cosa può determinare una fuoriuscita dell’io da se stesso, ammesso che sia possibile, permettendogli addirittura l’osservazione delle sue credenze e dei suoi comportamenti, senza mai perdere la connessione con se stesso?

A queste domande, spesso utilizzate per confutare la tesi di Larmore, si può invece rispondere con due strumenti: la lettura critica e attenta di un testo, soprattutto se affrontata ripetutamente in diverse età, e la scrittura derivante da essa. Ne è Esempio il Kafka di Bruni (Kafka – La verità tragica, Solfanelli Editore) o, meglio, la sua rilettura intesa come esperienza di fuoriuscita del proprio io da sé e di riconnessione con se stesso nell’ambito delle proprie credenze e dei propri comportamenti influenzati dal confronto con un Kafka che, di volta in volta, assume un significato proprio e differente.

Già nella prefazione del saggio, Bruni scrive:

«Kafka mi accompagna da epoche che credevo immortali. Ovvero dalle giovinezze. Franz Kafka è un’agonia rivisitata spesso. […] Rivisitare queste pagine mi costa fatica. Una volta scritte non vorrei più rileggerle. Ma dovrò farlo per non cedere alla tentazione dell’errore e dell’incompiuto.»

Un approccio alla lettura di uno scrittore sicuramente singolare e che si inscrive perfettamente in quell’atto di esternalizzazione momentanea dell’io costretto così a vedersi, a conoscersi. Un io, dunque, che Ponzio affermerebbe si pone su un piano diverso ed esterno.

Cosa, se non la lettura reiterata, ci permette di farlo?

Leggere è ritrovarsi in uno stato di sospensione del reale, pur non penetrando mai davvero in un altrove. Leggere è un atto contemporaneamente di disconnessione e riconnessione dell’io da sé. Rileggere lo è ancora di più. Rileggersi, fra gli appunti lasciati ai margini di una pagina inchiostrata è un conoscersi spiralico fra comportamenti e convinzioni che si rinnovano o si rigettano.

Per questo, forse, rileggere Kafka è per Bruni un’agonia che si rinnova ogni volta.

È il suo ‘io’ che si pone in ascolto di sé da un piano differente dal consueto spazio interiore, che si conosce e si interiorizza ogni volta per poi doversi smentire e riapprocciarsi a se stesso ad ogni nuova ri-lettura. È un viaggio solitario, che non ha i connotati dell’avventura o dell’abitudine, ma dell’osservazione diretta.

E, in qualche modo, lo stesso Bruni lo conferma nell’ultimo capitolo, mentre è riverso sul manoscritto, girovagando in una sua personale Praga dai contorni sfumati:

«Raccontare è pensare. Pensare è oltre a ciò che si racconta. Scrivere è meditare. Meditare su ciò che dovrà scrivere oltre ciò che si sta scrivendo. Perché raccontare e scrivere si realizzano in un viaggio nella solitudine.»

Forse, è proprio questo che fa di Kafka – La verità tragica un saggiounico nel suo genere. Non una “semplice” analisi e né “solo” uno studio approfondito degli scritti e dello scrittore, ma un’autoesperienza che si esplica attraverso una scrittura che, profondamente, sa portarne il peso.

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