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LA PEDAGOGIA COERCITIVA E PATERNALISTICA DEL POPULISMO PENALE

di Domenico Bilotti

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Sarebbe persino inesatto e sbrigativo credere che si tratti di un fenomeno esclusivamente italiano (che qui ha tuttavia le sue tipicità, sperimentazioni, ambiguità): il ricorso alla sanzione penale e all’eccesso regolativo in materia di pene e delitti è parte dell’attualità planetaria. A prescindere dal tipo di ordinamento giuridico fissato sulla carta (in costituzione): democrazia parlamentare, presidenzialismo elettivo, teocrazia, monarchia costituzionale, federalismo, autocrazia. In tempi di arretramento delle prestazioni sociali statali – dopo decenni di mala spesa clientelare, di smembramento del consorzio civile secondo i canali consueti della partecipazione politica e della coesione culturale, nonché in contesti dove oligopoli e multinazionali tendono soprattutto a difendere e incrementare la propria posizione patrimoniale, la sanzione è il farmaco placebo e panacea che è somministrato a volte senza nemmeno troppo criterio regolativo.

Si sono per fortuna affermate, sin qui senza però riuscire a capovolgere il quadro e il metodo, letture che mettono in evidenza la natura intrinsecamente discriminatoria e classista di questa impostazione. In fondo, non è nulla di così inedito nella storia criminale, quando i nuclei del potere reale si accorgono dello smottamento e tentano così di imbrigliare quello stesso smottamento. I primi destinatari delle misure di prevenzione personale, nel diritto italiano unitario, sono prostitute e accattoni, persino più spesso di oppositori politici e carbonari. Si individuano categorie di soggetti che meritano una compressione di libertà anche in assenza della commissione di un reato specifico. E altri esempi non mancano nella storia, né antecedente né successiva. Negli anni Settanta, la repressione dell’extraparlamentarismo, dietro la meritevolezza condivisa del “servare societatem”, finì per originare un diritto speciale poi assorbito acriticamente e dal codice e dalla giurisprudenza. All’inizio degli anni Novanta, il repulisti giudiziario di una classe politico-amministrativa pur sovente collusa e indifendibile passò come mantra di una parte intera dell’opinione pubblica. Più di tre decenni dopo, praticamente, però si è visto che le malversazioni non sono finite: piuttosto, consunta e decaduta, è una idea in sé dell’esercizio delle libertà politiche.

Oggi è forse tempo di dirsi che il populismo penale – reggendosi sull’individuazione enfatica di entità sgradite, da bandire il prima possibile dall’alveo della legittimità e preventivamente da additare a facili nemici – ha anche un inaccettabile piglio moralista – e non morale, non etico: l’etica la cita e male soltanto ad orecchio.

Forse per la composizione della sua maggioranza, forse per l’ansia elettoralistica del fare e del farsi vedere a fare e provvedere, il governo italiano si sta intestando la fase rappresentandone oggi quella componente che, buone o cattive intenzioni, più spesso finisce nel classismo e, appunto, nel moralismo. Una vera e propria pedagogia a-liberale dello Stato, per la quale la selezione delle condotte da incriminare risponde solo e soltanto a un’idea ben precisa dei comportamenti e dei valori censurabili. Dietro questo dirigismo penale-amministrativo (una quota di sanzione che evade sempre di più dal filtro di controllo della giurisdizione), i provvedimenti nascono in decreto e una volta convertiti si caricano di pochi, complicati e non decisivi, interventi di revisione: rave party, Cutro dopo la strage in mare, Caivano dopo le violenze di una terra così marchiata per i misfatti e non per la voglia di riscatto.

L’abuso di coercizione in assenza di giurisdizione, la limitazione discrezionale del kit costituzionale dei diritti di libertà, la redazione legislativa involuta e assillante, vogliono tamponare le conseguenze di impatto di crimini meno commessi e però più commentati e percepiti. Somigliano tuttavia a quei coprimuro che, mentre nascondono alla vista la crepa, finiscono per allargarla.

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