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LE TANTE BUONE LEZIONI

(E LE FALSE ILLUSIONI)

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DEL VOTO FRANCESE.

ORA MELONI NE FACCIA TESORO

E COMPIA LA SCELTA GIUSTA IN UE
Bisogna disistimare la democrazia parlamentare ed essere malati di bipolarismo a tutti i costi per non capire ed apprezzare quello che è stato definito “l’azzardo di Macron”, che ha sconvolto lo scenario politico francese e di conseguenza ha evitato che fosse travolto quello europeo. Tanto più se poi se si esulta perché “l’onda nera è stata fermata”. E cosa ha consentito la sconfitta del lepenismo filo-putiniano – perché di questo si tratta, visti i risultati delle europee e dello stesso primo turno delle politiche transalpine – se non la “mossa del cavallo” dell’inquilino dell’Eliseo che ha restituito la parola al popolo? È irritante vedere che si continui a descrivere il presidente francese come un tecnocrate espressione dei poteri forti e odiato dai cittadini, che però lo consacrano nelle urne a capo della seconda forza parlamentare del paese, e che lo si indichi come lo sconfitto per aver fatto un folle salto nel buio quando è palese il contrario. Ma il massimo dell’ipocrisia è godere dell’esito del risultato elettorale di domenica scorsa e poi negare a Macron il diritto-dovere di fare ciò che prevede la politica, quella vera e non quella che indugia al populismo: realizzare una convergenza di forze la più omogenea (o se si vuole, la meno disomogenea) possibile che in Parlamento, non nelle piazze, dia vita ad un governo.

 

Una competizione negazionista, questa, nella quale molti osservatori e commentatori italiani se la giocano con i colleghi francesi e li battono. È davvero insopportabile leggere e ascoltare le accuse di “elitismo” rivolte al presidente francese, quasi fosse abusivo e non invece eletto dai cittadini francesi. Certo con le regole di quel semi-presidenzialismo: con i collegi uninominali in cui si vince superando il 25% degli aventi diritto al voto (attenzione, non dei votanti), con il doppio turno cui si accede superando il 12,5% sempre degli aventi diritto, con la desistenza (meccanismo non solo lecito, ma politicamente eccellente, e a testimoniarlo è la critica di lesa democrazia – da che pulpito!! – di quella faccia di tolla del ministro degli Esteri russo Lavrov). Tutta roba che a sinistra come a destra è sempre piaciuta, pur con le solite varianti all’italiana e a corrente alterna, ma che ora viene invece bollata come un insieme di stratagemmi con cui il potere (?) si autoperpetua in spregio della volontà popolare. Ed è singolare il fatto che chi, come me, ha sempre espresso preferenza per il sistema tedesco, si trovi a difendere quello francese. D’altra parte, chi legge TerzaRepubblica da tempo sa che io ho sempre detto che in subordine al cancellierato stile Germania, avrei accettato senza riserve il semipresidenzialismo alla francese (completo di tutte le regole) piuttosto che l’ennesimo obbrobrio italico come quelli che abbiamo provato dal referendum Segni in poi.

Si è detto che la Francia è precipitata nel caos perché dalle urne non è emersa una maggioranza. Certo, se ci si ostina a pretendere il vincitore “la sera stessa del voto”, è vero. Ma dove sta scritto che debba essere così? Come ha notato il mio amico Francesco Cundari “l’esito delle elezioni francesi dimostra ancora una volta che non esiste alcuna legge elettorale o disegno istituzionale, nell’occidente democratico, capace di garantirlo” e che “sarebbe ora di prenderne atto anche in Italia”. Ergo, in una democrazia è il Parlamento il luogo dove la politica trova sintesi, e questo vale anche nei sistemi presidenziali (Stati Uniti) o semi-presidenziali (Francia) per effetto del bilanciamento dei contrappesi istituzionali. Poi le circostanze storiche fanno la differenza. Questa volta in Francia il popolo era chiamato a fare una sola scelta: aprire o meno la porta di palazzo Matignon, al numero 57 di rue de Varenne nel VII arrondissement di Parigi, sede del Governo, all’estrema destra. La scelta è stata netta: no, così come nel corso degli anni le è stata ripetutamente sbarrata la porta al 55 di rue du Faubourg-Saint-Honoré, quella dell’Eliseo. Ma l’arco di forze che hanno determinato questa scelta, possibile grazie al democraticissimo sistema della desistenza, è troppo eterogeneo, unito com’era dalla sola determinazione di battere il Rassemblement National, per aspirare ad andare in blocco al governo. Come ha osservato Alessandro Campi, “un cartello elettorale non è un’alleanza politica stabile e duratura”.

 

Lo stesso Nouveau Front populaire, che ha raggruppato forze di sinistra sideralmente distanti tra loro, è nato con l’unico scopo di “fermare l’onda nera”. Obiettivo politico fondamentale ma non sufficiente ad avere un dopo. Per questo è corretto dire che le elezioni francesi le ha vinte Macron nella sua veste di Presidente della Repubblica per avere avuto il coraggio e la lungimiranza di indirle, e le ha perse la destra della signora Le Pen e del giovinotto Bardella, che era ed è rimasta minoranza nell’elettorato. Punto.

 

Ora, dunque, attendiamo con viva speranza che a Parigi trovino l’accordo le forze sinceramente europeiste e atlantiste, e segnatamente quelle che vanno dai socialisti ai gollisti (quelli che non hanno fatto l’esiziale errore, per cupidigia, di attaccarsi al carro lepenista) passando per i liberali e i verdi, lasciando fuori tanto la sinistra radicale di Mélenchon (il suo France Insoumise ha solo 71 voti sui 180 del NFP e, si noti, un terzo dei deputati macroniani di Ensemble) quanto la destra riunita sotto le bandiere del Rassemblement National. Assieme queste forze – che garantirebbero la cosa che più conta oggi, la continuità della politica estera, e in particolare nel sostegno all’Ucraina per fermare l’aggressione di Putin all’ordine sul quale si basa la pace in Occidente – assommano una larga maggioranza dei 577 parlamentari francesi, e hanno tutto il diritto, oltre che il dovere, di dare un governo alla Francia. Mi piacerebbe che a guidarlo fosse Raphaël Glucksmann, che potrebbe rivelarsi lo Starmer francese, ma anche l’ex presidente François Hollande, ritornato in Parlamento e sugli scudi, andrebbe benissimo. In tutti i casi, anche considerando che la legge vieta il ritorno alle urne prima di un anno (altra regola, insieme a quella di poter anche avere un governo di minoranza, che contribuisce alla stabilità del sistema transalpino), a questa strada non vedo, né tantomeno auspico, alternativa. E a chi strepita che non si può lasciar fuori Mélenchon, si consiglia di vedere le sue stesse dichiarazioni: anziché disporsi alla mediazione che i numeri e il buonsenso rendono necessaria, ha ribadito il suo folle programma da demagogo arruffapopolo e vomitato veleno nei confronti di Macron. Della serie: non ci penso nemmeno ad andare al governo, voglio mani libere per puntare tra tre anni all’Eliseo (auguri).

 

Ma ora occupiamoci di quali sono i riflessi, per l’Europa e per l’Italia, di questo importante passaggio politico francese (che a mio giudizio non segnerà la fine della Quinta Repubblica basata sulla settima versione della Costituzione, introdotta nel 1958, come invece molti soloni si sono affrettati a sostenere). Coloro che speravano che la vittoria dell’estrema destra in Francia potesse cambiare gli equilibri in Europa e archiviare nei libri di storia l’asse franco-tedesco su cui poggia, se ne facciano una ragione, e chi invece lo temeva si rassicuri: non accadrà. E ciò è tanto più importante perché accade proprio mentre l’autocrate ungherese Viktor Orbán da un lato raggruppa ed egemonizza (altro che Le Pen) tutte le destre radicali continentali, Lega italiana compresa, e dall’altro approfitta maramaldescamente della presidenza di turno dell’Unione per consolidare il suo servilismo putiniano e inaugurare quello trumpiano al grido “make Europe great again” (senza dimenticare la Cina).

 

Quanto all’Italia, smaltita la doppia sbornia delle illusioni in salsa francese – con il voto, quella della destra vincente in Europa, e con il dopo voto, quella che la sinistra radicale possa andare al governo se non addirittura guidarlo – ora è sperabile che Giorgia Meloni sappia trarre tutti gli insegnamenti che la tornata elettorale continentale – europea, inglese, francese – offre. Il primo dei quali dovrebbe essere che la destra, così come la sinistra, se non costruiscono alleanze con il centro, non vincono e che la tentazione di fare un referendum su se stessi è l’idea più stupida che possa loro venire in mente. Come scrive Davide Giacalone “nelle democrazie parlamentari si deve essere capaci di tessere alleanze – vuoi nel programma, vuoi nelle urne, vuoi in Parlamento – a seconda dei diversi sistemi e chi rappresenta soltanto la propria tifoseria e non può avere alleati, giacché tutti gli altri lo schifano, perde o resta a far testimonianza di settarismo”. Ne tenga conto, la presidente del Consiglio, per il prosieguo di quel pasticcio chiamato premierato, visto che è ancora in tempo sia a modificarne il contenuto che a provare a condividerlo con altre forze non di maggioranza, uscendo dallo schema contrappositivo in cui si è messa fin dal primo giorno di legislatura (sbagliando la lettura politica del voto del 2022) e che alla lunga finirà col consumarla. Il secondo insegnamento di cui far tesoro riguarda la legge elettorale: quale che sia, funziona bene se è radicata nella storia e nelle tradizioni politiche del paese, se è consolidata e non si cade nella tentazione di cambiarla ad ogni cambio di maggioranza con l’idea di piegarla alle proprie convenienze (tra l’altro di solito è un boomerang), ma soprattutto se è coerente con il sistema politico-istituzionale che si è scelto. Ci sono tre sistemi consolidati a cui si può guardare: il tedesco, il francese e l’inglese; si scelga ciò che si preferisce – ergo quello su cui c’è maggiore convergenza – ma per favore si eviti l’effetto patchwork o, peggio, la pura invenzione.

 

Naturalmente anche la sinistra, e il Pd in particolare, dovrebbe riflettere su quanto è avvenuto. Quando Elly Schlein si infervora per il risultato francese e ne deduce che “uniti si vince”, prende un abbaglio: uniti forse si impedisce alla destra di prevalere, nulla di più e nulla di meno, mentre per governare ci vogliono valori e indirizzi di fondo compatibili se non coincidenti, un programma concordato e tanto sano realismo. Tutte cose che nel “campo largo” latitano. Ripetiamo anche a lei l’invito rivolto a Meloni: sia assennata, eviti di ascoltare le prediche del compagno Bettini, ideologo degli “insoumis de noaltri”, secondo cui Mélenchon “dopo la sua straordinaria vittoria (??) ha fatto bene a rivendicare le sue proposte economiche e sociali”, evitando di dire che con quelle non solo non aggrega alcun’altra forza, ma spacca lo stesso fronte popolare.

 

Tornando infine a Meloni nella sua veste di presidente del Consiglio, che ci interessa di più perché ci sono di mezzo le sorti dell’Italia, per lei la prova del nove sarà la prossima settimana, quando dovrà decidere una volta per tutte se e con quale modalità approvare la riconferma di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione Ue. Le voci che le suggeriscono di far prevalere gli interessi del paese che guida anzichè quelli (peraltro presunti) del suo partito, sono talmente tante che sono ormai diventate un coro. Mi unisco anch’io, ma con una variante: se darà i suoi voti lo faccia alla luce del sole, non nel segreto dell’urna (si vota a scrutinio segreto) perché non si può rivendicare ciò che l’Italia merita in seno all’Unione europea e poi scambiare miseramente una manciata di voti, probabilmente neppure determinanti, per una vicepresidenza o un posto di commissario di rango. Se invece disgraziatamente vorrà ripetere l’errore commesso in sede di Consiglio europeo, allora sappia che consegnerà alla marginalità assoluta non solo se stessa – e sono fatti suoi – ma anche e soprattutto l’Italia, e questi sono fatti nostri. Considerato che dall’Europa dipende la sorte di un paese come il nostro super indebitato, che deve fare una Finanziaria non avendo un becco di un quattrino (salvo tagliare la spesa corrente, ma chi lo fa?) e avendo sulle spalle una procedura d’infrazione per deficit eccessivo e che in Europa, tra Mes non firmato e Pnrr in ritardo, non gode certo di grande credibilità. Si faccia un esame di coscienza, Giorgia Meloni.
 

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