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MELONI SI È AUTOESCLUSA

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DALL’EUROPA CHE CONTA

E A PAGARNE IL PREZZO È L’ITALIA.

TUTTA COLPA DI TRUMP…
Un suicidio. Politico e istituzionale. È triste e pericoloso, ma soprattutto incomprensibile, l’epilogo della riconferma di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione Europea, a firma di Giorgia Meloni e del suo partito, che nonostante gli autorevoli consigli a votare a favore e le innegabili aperture contenute nel programma della candidata tedesca, dalla posizione sui migranti alla proposta di istituire un commissario per il Mediterraneo, hanno commesso il doppio errore di votare contro – ed è la prima volta che l’Italia si comporta in questo modo – e per di più di farlo sapere a cose fatte, senza assumersene preventivamente la responsabilità con una dichiarazione di voto esplicita. Una scelta le cui ragioni sono talmente indecifrabili che subito dopo il voto, in chat autorevoli e ben frequentate così come in valutazioni di vecchie volpi della politica (Casini), si è sentito il bisogno di costruire una spiegazione, logica ma indimostrabile, per farsene una ragione: “FdI ha votato a favore ma, per motivi politici propri ma anche della stessa von der Leyen, dice di aver votato contro, e la dimostrazione ci sarà con le nomine dei commissari”. Della serie: la Meloni non è una sprovveduta, avrà sicuramente agito secondo una precisa strategia.

 

Io, ovviamente, non sono in grado né di confermare questa ipotesi né di affermare con certezza il suo contrario (rumors attendibili fanno solo due nomi di europarlamentari di FdI che avrebbero disatteso le indicazioni di gruppo). Di certo c’è che VdL è più che contenta di non aver ricevuto i voti di Ecr, e di Fratelli d’Italia in particolare, sia perché non sarebbero stati determinanti e sia perché riceverli le avrebbero procurato problemi politici nella sua maggioranza ancor più gravi di quelli determinati dal fatto che ha dovuto subire il cecchinaggio di qualche decina di franchi tiratori. Tuttavia, faccio comunque un altro ragionamento: se anche ci fosse stato l’inciucio, che valore, che presentabilità può avere? Sono settimane che si è andati ripetendo che un paese grande e importante come l’Italia ha diritto al massimo della considerazione e della rappresentanza in seno agli organismi comunitari, ma poi la presidente del Consiglio, preferendo calzare i panni di leader di partito, nell’ordine si è rifiutata di partecipare ai tavoli di negoziazione, ha votato contro la nomina dello spagnolo Costa al vertice del Consiglio europeo, si è astenuta sulla indicazione della candidatura di VdL, si è rifiutata di votare la mozione di condanna della posizione filo-Putin assunte da Orban nella sua veste di presidente di turno della Ue, e si è persino astenuta sulla parte del testo della risoluzione del Parlamento europeo a sostegno dell’Ucraina in cui si “sostiene fermamente l’eliminazione delle restrizioni all’uso dei sistemi di armi occidentali forniti all’Ucraina contro obiettivi militari sul territorio russo”. Per poi concludere in bellezza con il voto di Strasburgo contrario alla nomina della von der Leyen.

 

Meloni voleva sottrarsi ad un gioco di cui non aveva il controllo (essendosi illusa di poter dare lei le carte)? Allora avrebbe dovuto trovare il modo di essere spiazzante. Per esempio, proponendo la madre di tutte le riforme europee: cancellare l’unanimità, che è la vera palla al piede che impedisce alla Ue di assumere decisioni in tempi rapidi. Avrebbe potuto dire pubblicamente: cara Ursula, se ti impegni a sostituire l’obbligo di avere la totalità dei voti dei paesi membri con una maggioranza qualificata, io sono con te e voto convintamente la tua riconferma. Invece ha traccheggiato – lei che vorrebbe il premierato per assecondare il suo (presunto) decisionismo – ed è finita in un cul de sac dal quale non è più stata in grado di uscire. Anche l’annunciare la sua scelta a scrutinio fatto, più che il senso dell’opportunismo – se i numeri mi consentono di dirmi determinante dico che ho votato sì, altrimenti accuso VdL di scivolamento a sinistra per via dei Verdi e sbandiero la mia “coerenza” – restituisce l’idea di un tentennamento, di una indecisione. Mentre restano scolpite le parole usate dalla neo eletta presidente subito dopo la sua riconferma, quando ha definito le forze che l’hanno sostenuta una “maggioranza democratica” basata sulla condivisione di tre valori fondamentali: l’europeismo, il sostegno all’Ucraina e lo stato di diritto. Formula che per contrasto bolla chi è rimasto fuori da quel perimetro come estraneo a quei valori.

 

Dunque, accordo sottobanco o meno che sia, comunque si tratta di un harakiri. Politico, perché interrompe il processo di trasformazione di Meloni da figura estremista e populista a leader conservatrice di stampo euro-atlantista e svilisce il percorso fatto fin qui. E istituzionale, perché mette in grave difficoltà l’Italia in un momento in cui in sede europea molti nodi della nostra finanza pubblica vengono al pettine. E come cittadino italiano mi preoccupano entrambi. Nel primo caso perché, come fu già per Alleanza Nazionale, l’evoluzione politica della destra in chiave moderata e lontana dalle tentazioni sovraniste e populiste è (sarebbe) un fattore di grande importanza per l’intero sistema politico. Tanto più ora che la destra ha in mano il bastone del comando. Né mi consola il fatto che così facendo Meloni abbia evitato una fuga in avanti di Salvini. Ammesso che questa sia la motivazione che l’ha spinta al no a UvdL, resta che la maggioranza di governo risulta ugualmente spaccata su una questione dirimente come quella della sua posizione in seno all’Europa, visto che Forza Italia ha invece votato a favore. E ora non potrà che porre, pena la sua marginalità politica, il tema di una verifica di coalizione. Già questo è un destra-centro e non un centro-destra, se poi su una questione essenziale come il posizionamento in Europa, si sancisce la spaccatura che non è più solo con Salvini – che il buonista Tajani si ostina a considerare “un amico che sbaglia” – ma anche con la presidente del Consiglio, allora chi nell’alleanza rappresenta il centro saldamente ancorato all’Europa, via Ppe, non può che pretendere un indifferibile chiarimento politico. Non solo. Con la scelta identitaria di Strasburgo Meloni ha (definitivamente?) regalato Renzi alla sinistra: subito dopo il no a VdL, il fondatore di Italia Viva rilasciava un’intervista al Corriere della Sera in cui, buttando alle ortiche tutto il terzismo degli ultimi anni, si è consegnato a Elly Schlein – con la quale si era fatto fotografare abbracciato, giusto perché fossero chiare le sue intenzioni anche alla casalinga di Voghera – e persino all’odiato avvocato Conte, proprio mentre i due a Genova avevano perimetrato il campo largo con il metro giustizialista (manifestazione contro Toti).

 

Ma siamo di fronte ad un harakiri anche istituzionale perché il Paese ha tutto da perdere da una maggiore marginalità in sede comunitaria rispetto a quella che si è già guadagnata per via della scarsa credibilità che lo accompagna da decenni. Tanto più visto che la nuova Commissione ha importanti decisioni da prendere, e noi non avremo voce in capitolo, e che dall’Europa (Unione e Bce) dipende la sorte del nostro debito ormai a un passo dai 3 mila miliardi, mentre ci attende una legge di Bilancio da scrivere senza avere il becco di un quattrino a disposizione (salvo aumentare il debito, ma non si può, o tagliare la spesa corrente, ma chi lo fa?) nel contesto delle regole (stringenti) del nuovo Patto di stabilità e avendo sulle spalle una procedura d’infrazione per deficit eccessivo. Aggiungete che in Europa, tra Mes non firmato e Pnrr in ritardo, non godiamo certo di particolare considerazione, e avrete il quadro di quella che sarà la condizione dell’Italia dopo le vacanze estive. Proprio mentre le difficoltà di Francia e Germania ci avrebbero potuto consentire inediti spazi di manovra. Infine, si rifletta su una cosa. Proprio mentre i suoi europarlamentari dovevano votare a Strasburgo, Meloni era a Tripoli a spiegare ai libici che con il piano Mattei l’Italia avrebbe riportato l’Europa in Africa: quanto poteva essere credibile se in quel momento il partito della presidente del Consiglio si accomodava all’opposizione della nuova Commissione?

 

Ma cosa può aver spinto Giorgia Meloni a dare un calcio all’opportunità di fare del voto, esplicito e convinto, a favore di Ursula von der Leyen la sua svolta di Fiuggi, imboccando con decisione la strada verso una destra moderna, post sovranista e post populista? È il prestare orecchio al richiamo della foresta, la solita scelta identitaria? Sicuro, anche se parliamo di un vincolo che vale al massimo il 5-6% dell’elettorato. È la dipendenza dal dogma, caro anche a sinistra, di non avere nessuno che ti scavalchi, in questo caso a destra? Certo, anche se in Europa ormai il pallino in mano ce l’hanno Orban e la Le Pen, cui si è aggregato Salvini, non più Ecr di Meloni, che dopo l’uscita di spagnoli e olandesi è poca cosa sia in termini di numeri che di ruolo politico. E che in questo contesto a Meloni tocchi un ruolo marginale se resta in Ecr o di aggregata se le destre faranno un unico gruppo europeo, lo suggerisce anche l’iper attivismo del premier ungherese, che approfittando (impropriamente) della presidenza di turno Ue si è messo a tessere una tela filo-putiniana e anti-atlantista che è esattamente l’opposto dell’apprezzabile posizionamento che in 20 mesi di governo si è data la Meloni.

 

Ma l’impressione è che non sia estraneo all’arrocco meloniano quanto sta accadendo oltre oceano: il fattore Trump. Dando per scontato, dopo il fallito attentato e il vantaggio mediatico che ha generato, il ritorno alla Casa Bianca dell’ex presidente, cosa che ancora non è – le elezioni sono ancora lontane, Biden è a un passo dal ritiro e poi come dice Michael Cunningham, vincitore del Pulitzer nel 1999 con “Le ore”, “non sono ancora disposto a credere che sia inevitabile” – Meloni è preoccupata che il legame costruito con Biden, con tanto di bacio in fronte, rappresenti un handicap rispetto al rapporto con la prossima Amministrazione Usa. Cosa comprensibile, per carità, ma a cui non si può certo rimediare – se davvero rimediare si dovrà – rifilando un calcio negli stinchi a VdL. Sai quanto gliene importa a Trump di come il gruppo meloniano ha votato a Strasburgo. Pensate che se ha nella testa, come sembra, di mettere dei dazi pesanti sulle merci europee che entrano negli States – cosa che per noi che viviamo di export rappresenterebbe una vera iattura – all’Italia farebbe lo sconto perché Salvini lo incensa un giorno sì e l’altro pure e perché la Meloni è all’opposizione nella Ue? E se Trump, come va ripetendo nei suoi deliranti comizi, intende lasciare l’Ucraina al suo destino e consentire alla Russia di fermare la guerra alle condizioni di Putin, Meloni che farà, gli terrà bordone, magari usando l’amicizia con Orban – peraltro unilaterale visto che l’ungherese non ci ha pensato due volte a svuotargli l’arsenale di Ecr e mettersi con la Pen – o sarà coerente con quanto detto e fatto fin qui? Voi capite, cari lettori, che in momento mai così turbolento per l’intero pianeta, e per l’Europa in particolare, dalla fine della Seconda guerra mondiale, sono questioni un pochino più significative che negoziare per Fitto, o chi per lui, una posizione di commissario Ue per questa o quella materia.

 

L’Europa, cioè noi, vive sotto il tiro di una doppia minaccia: una interna, data dalle forze anti-europee (quelle che von der Leyen ha voluto tenere fuori dalla sua maggioranza), e una esterna, che è data prima di tutto dalla Russia che mette in pericolo la pace che da 80 anni il Vecchio Continente ha conquistato, e poi da chi infiamma il Mediterraneo, dalla Cina e in prospettiva dall’isolazionismo che Trump potrebbe imporre all’America. In un contesto del genere, era il caso di suicidarsi?
 

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