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IL MONDO ATTENDE LE ELEZIONI USA

DA CUI DIPENDONO L’ESITO DELLE GUERRE

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E LE SORTI DELL’EUROPA, MENTRE IN ITALIA

SI AFFOLLANO GLI INTERROGATIVI

SULLA TENUTA DEL GOVERNO MELONI.

CI ASPETTA UN “AUTUNNO CALDO”
C’era una volta l’autunno caldo, lo ricordate? Ecco, tornerà. Non quello del 1969, delle lotte sociali e delle rivendicazioni sindacali. Anche se sul piano economico ci attendono tempi difficili, quello del 2024 sarà un autunno caldo mondiale: sarà americano, e quindi planetario, sarà europeo e sarà italiano: tutti autunni caldi, tra loro interconnessi, caratterizzati da una congerie di situazioni di primaria importanza, decisive per il nostro futuro. Per questo, cari lettori, accingetevi ad andare in vacanza per godervi un po’ di svago e di meritato riposo, ma tenete già bene a mente l’agenda del vostro ritorno.

 

Partendo dagli Stati Uniti, cerchiate in rosso la data di martedì 5 novembre, giorno in cui gli americani decideranno se riaprire le porte della Casa Bianca a Trump o confermare un presidente democratico (Kamala Harris, ragionevolmente). Una decisione che non riguarda solo loro, visto che mai come in questo momento la divaricazione radicale tra le due candidature è gravida di conseguenze che vanno ben al di là degli Usa. In effetti, più che una gara a due, sarà un referendum su Trump. E come i cittadini statunitensi, anche il mondo intero è diviso tra chi spera che ce la faccia The Donald e chi teme che il suo ritorno rappresenti una vera e propria sciagura. Tra i primi c’è Putin, e con lui i putiniani di ogni risma, da Orban a Salvini, e in generale un po’ tutti gli autocrati che ammorbano il pianeta. Tra i secondi ci sono i governi che reggono le sorti delle democrazie occidentali, e in particolare gli europei, o quantomeno tutte quelle forze che hanno vinto le elezioni e hanno rinnovato il patto che ha riportato Ursula von der Leyen al vertice della Commissione Ue. E questo la dice lunga su cosa sarebbe meglio che accadesse, il 5 novembre. Fermo restando che anche in caso di vittoria di Trump è lecito attendersi un certo scarto tra le sparate millenaristiche della campagna elettorale e la ragionevolezza, a vantaggio di quest’ultima. Tuttavia, se fosse – ma non è detto, ho azzeccato la previsione francese nello scetticismo generale, e confido di fare il bis, anche se devono ancora succedere tante cose prima del voto – una cosa è certa: con Trump e con il partito repubblicano ormai trumpizzato non ci sarà più quell’unità delle democrazie occidentali a cui siamo stati abituati, e per certi versi anche mal abituati, dalla Seconda Guerra Mondiale ai giorni nostri, dando vita agli 80 anni di pace e benessere più straordinari della nostra storia.

 

E qui veniamo all’autunno dell’Europa. Se è chiaro – e spero che lo sia, perché in giro non vedo tanta consapevolezza – che la vera posta in gioco del 5 novembre è se gli Stati Uniti abbandoneranno o meno l’Europa al suo destino. Nel caso, ci troveremmo di fronte ad uno scenario inedito di un’assoluta complessità. Ed è inutile attendere il verdetto, perché se anche vincesse, il candidato democratico dovrà probabilmente fare un minimo di concessioni all’idea di “America first”. Dunque, sarà bene che a Bruxelles come in tutte le cancellerie continentali si ragioni fin d’ora sul come affrontare l’eventuale venir meno della leadership Usa, che per decenni ci ha consentito di spendere in welfare (che gli americani si sognano) anziché in ombrelli protettivi, militari ed economico-finanziari. Il che significa prima di tutto due cose: neutralizzare gli effetti di una più che probabile politica dei dazi, che danneggerebbe in maniera mortale le nostre esportazioni, e rendersi autonomi nel campo della sicurezza (fisica e informatica) e della difesa, a cominciare dalla sorte che si vorrà dare alla Nato. Tradotto vuol dire, da un lato, mettersi in competizione con gli Usa nel campo delle tecnologie del futuro (IA in primis) e trovare nuovi mercati di sblocco mentre, dall’altro lato, predisporsi ad avere un esercito europeo e una produzione comune di strumenti militari e di tecnologie della difesa, cosa che presuppone volontà politica e migliaia di miliardi di investimenti (altro che aspettare qualche anno per arrivare al 2% del pil, come ambisce il nostro governo). E non è una questione di cui preoccuparsi in prospettiva, perché con la guerra scatenata dalla Russia in Ucraina con l’intento di destabilizzare l’intero Vecchio Continente, il problema bussa già alla nostra porta. Angelo Panebianco ha giustamente evocato il rischio di una “finlandizzazione” dell’Europa, con Putin a cui sarebbero stesi tappeti rossi e l’Ucraina che nel migliore dei casi sarebbe costretta a rinunciare ai territori conquistati militarmente dai russi. E sono d’accordo con lui quando immagina che l’Europa si spacchi, nelle piazze prima ancora che nelle istituzioni, entrando in un loop da psicodramma collettivo. Con i putiniani di destra e di sinistra – da Orbán a Melénchon, passando per Le Pen e Salvini, da un lato, e dall’altro quelli della sinistra radicale (Salis, Lucano), i Pd di nuovo conio (Strada, Tarquinio, Ruotolo) e i pentastellati di Conte, tutti finti pacifisti – che accuserebbero gli europeisti di essere dei guerrafondai.

 

Ma qui viene la responsabilità – a dir poco storica – di coloro che fanno parte della grande coalizione che ha riconquistato la maggioranza del parlamento di Strasburgo e rieletto UvdL. Costoro hanno di fronte il duro onere ma anche la straordinaria opportunità di completare la costruzione unitaria europea, magari recuperando la Gran Bretagna che con il laburista Starmer ridurrà la sua dimensione anglo-americana (con Trump presidente) e sicuramente sarà il principale baluardo su cui potrà contare l’Ucraina. Ecco che il disegno degli Stati Uniti d’Europa perde la sua dimensione ideale e un po’ utopica per diventare necessità cogente. Anche perché, senza, l’Europa non riuscirà a conquistare l’autonomia necessaria per rendersi indipendente, sia sul piano economico, energetico e tecnologico, sia sul piano militare e della sicurezza (si pensi al baco informatico che qualche giorno fa ha piegato le gambe a mezzo mondo, tranne a chi, come Cina e Russia, avevano la loro autonomia tecnologica). Sinceramente, non so dirvi se questa impresa riuscirà, anche perché nel Vecchio Continente non vedo leader all’altezza, ma di una cosa sono certo: non c’è tempo da perdere e le conseguenze, in caso di fallimento, saranno drammatiche.

 

E l’Italia, in tutto ciò? Ci siamo appena chiamati fuori dalle responsabilità europee, e questo oltre che un errore, è un delitto. Finora questa autoesclusione la si è giudicata più per i danni che ci può procurare – dall’irrigidimento della Commissione sui nostri conti pubblici, che ci hanno appena procurato una procedura d’infrazione per deficit eccessivo, sulla base delle regole (stringenti) del nuovo Patto di stabilità, alle frizioni per il Mes non firmato e il Pnrr in ritardo – e meno, o per niente, per le conseguenze politiche che genera. Ma è grave che l’Italia si trovi, di fatto, schiacciata sulla frontiera dei paesi pro Trump, senza che questo posizionamento sia stato il frutto di un’esplicita scelta di governo, con relativa benedizione parlamentare. Con ciò buttando alle ortiche gli inattesi consensi che, in due anni di palazzo Chigi, Giorgia Meloni si era guadagnata con una politica di netto stampo atlantista – ribaltando completamente le sue posizioni, tanto per dire che non è la coerenza che deve rivendicare, bensì la benefica incoerenza (se e quando la pratica) – trovando con Biden un felice rapporto di dialogo e collaborazione. E la presidente del Consiglio ha da pregare che Trump perda, perché in caso contrario sarebbe assai complicato spiegare al Paese il danno procurato dal suo trumpismo last minute, quando ci troveremo con il nostro export verso gli Usa che soffrirà delle barriere doganali messe dalla Casa Bianca o quando dovremo tagliare la spesa pubblica o alzare il prelievo fiscale per far fronte a spese militari cui siamo disabituati. Problemi infinitamente più grandi e gravi di quelli che ci sarebbero – e ci sarebbero – se la presidenza rimanesse democratica e lei fosse chiamata a spiegare la comunella con gli amici di Trump e Putin.

 

Ma il no a von der Lyen in chiave di apertura a Trump genera conseguenze politiche interne, che già ora si vedono a occhio nudo ma la cui piena portata, e relative conseguenze, si potranno misurare alla ripresa dopo la pausa estiva. Meloni ha già ottenuto l’effetto, immagino indesiderato, di ritrovarsi schiacciata sulle posizioni oltranziste dell’odiato Salvini, mentre l’intervento della famiglia Berlusconi induce Forza Italia ad accentuare il dissenso fino al punto di immaginare l’apertura di un fronte di dialogo con le forze centriste e le componenti riformiste del Pd. Ai tanti che mi rivolgono la fatidica domanda sulla tenuta della Meloni e del suo governo, rispondo così: se si sentirà svincolata dalla deferenza atlantista (un po’ forzata) tenuta con Biden, e si lascerà prendere la mano (destra) dal ritorno al nazionalismo oltranzista, parente stretto dell’isolazionismo autoritario trumpiano, accentuando in nome della coerenza identitaria la contrapposizione esasperata che (bi)polarizza il sistema politico, allora pronostico tempi brevi per il governo e la legislatura. Se, viceversa, ritroverà la capacità di mettere a reddito l’incoerenza rispetto al tratto identitario, che a tratti aveva fatto vedere, allora il tema sarà in quale misura e in che tempi Salvini vorrà consumare la rottura (per esempio dopo un’eventuale vittoria della sinistra alle elezioni anticipate in Liguria), e se in quel caso Meloni avrà il coraggio di battere strade inedite. Se debbo giudicare dall’intervista giustificazionista rilasciata al Corriere della Sera subito dopo il no a UvdL, dalla reazione rabbiosa per la scelta della Nato di dare priorità ad uno spagnolo come responsabile del Fronte Sud dell’Alleanza e dai silenzi o dalle imbarazzate repliche ai tanti episodi (troppi) che vedono coinvolti esponenti del suo mondo, comprese le gaffe (chiamiamole così per carità di patria) di Ignazio La Russa nella sua veste di seconda carica dello Stato, allora è assai più probabile che si verifichi la prima delle due ipotesi. Purtroppo.

 

In qualche misura, ma senza esagerare, la sorte del governo e della sua maggioranza dipende da quel che succede nel campo (più o meno largo) avverso. Nel quale la cosa più significativa, oltre al corretto riallineamento dei pesi derivato dalle elezioni europee, l’ha prodotta quell’animale politico di Matteo Renzi con il suo abbraccio a Elly Schlein e conseguente riposizionamento a sinistra. Molti amici mi chiedono di riflettere in modo positivo circa la possibilità che il centro-sinistra, magari grazie al ritrovato Renzi, sia un’alternativa alla deriva destrorsa dell’attuale maggioranza. Non ho preclusioni ideologiche verso questa ipotesi, ma noto che in questi amici prevale più la preoccupazione di trovare un “argine democratico”, temendo se non un vero e proprio ritorno al fascismo, quanto meno la progressiva fascistizzazione della vita politica e sociale, mentre io di questo destra-centro temo molto di più il dilettantismo, la povertà della classe dirigente (si fa per dire) e l’inadeguatezza, culturale prima ancora che politica, nell’affrontare le gigantesche sfide che abbiamo di fronte. Povertà che vedo, seppur sotto altre forme, anche nel cosiddetto “campo largo”. Al di là del mio giudizio negativo storicamente consolidato sul bipolarismo all’italiana fin qui sperimentato, resta il fatto che l’arco di forze che va dal duo Bonelli-Fratoianni a eventualmente Renzi o Calenda (i due sono ormai alternativi, tant’è vero che dopo l’apertura del primo il secondo si allontana) potrà anche vincere le prossime elezioni – non fosse altro perché una delle caratteristiche del nostro sistema politico è la condanna a perdere le elezioni successive da parte di chi è andato al governo avendo vinto le precedenti – ma non sarà in grado di governare. E se poi quell’alleanza dovesse candidare Elly Schlein alla presidenza del Consiglio, priva com’è di una visione dei rapporti politici e delle dinamiche socio-economiche, nazionali e internazionali, temo che mi sarebbe difficile non temere il peggio. Almeno tanto quanto lo temo nella situazione data.

 

Quanto al de profundis cantato da Renzi al Terzo Polo, vorrei ricordare all’amico Matteo, che considero dotato di un’intelligenza politica pari alla sua spregiudicatezza, che il Centro è un luogo della politica dove la dimensione riformista e quella moderatamente conservatrice si possono e si debbono incontrare, e ridurlo a terra di nessuno dove trova spazio chi non ha la residenza né a destra né a sinistra nell’attesa di trovar casa in uno dei due fronti, francamente ne svilisce il ruolo e premia la logica secondo la quale la competizione politica si esaurisce nel “vincere” e non nel creare le condizioni per governare. Dire che si è prosciugato il campo del potenziale consenso a favore di una forza che non sta né di qua né di là, significa non aver capito due cose. La prima: che le due forze su cui fa perno il bipolarismo assommano poco meno del 50% dei voti espressi, cioè il 25% degli aventi diritto, e quindi quella che vince guida la sua coalizione rappresentando a dir tanto il 15% degli italiani. Che razza di bipolarismo è mai questo e perché chi lo ha criticato, seppur tardivamente, dovrebbe intrupparvisi? La seconda cosa non capita: il potenziale elettorale per una forza terzopolista sta nell’ormai oltre metà dei cittadini che, delusi e stomacati, non si recano più alle urne. Tolta una quota di qualunquisti – piccola, perché negli ultimi tempi costoro si sono ritrovati una copiosa offerta politica a loro indirizzata, dai grillini al generale Vannacci, e sono dunque andati a votare – il resto è astensione consapevole, cioè di italiani che se fossero messi nelle condizioni di ritrovare il gusto di tornare a dire la loro, lo farebbero più che volentieri. Di sicuro non per un Centro che, oltre ad essere diviso e rissoso, appare pencolante da una parte e all’altra a seconda delle convenienze di breve momento. Dunque, se la scelta di campo di Italia Viva (e, si deve presumere, di +Europa) serve a liquidare una volta per tutte quello che Marco Taradash ha definito “l’equivoco terzopolista”, ben venga. Ma ora occorre, e sarà anche questo un tema “caldo” del nostro autunno, una vera forza che unisca riformisti e moderati, se vogliamo salvarci dal bipolarismo animato dagli incapaci a governare.

 

Cari lettori, ci aspetta una ripresa tremendamente complicata, sul piano geopolitico e su quello economico. In ballo ci sono e ci saranno valori fondamentali, come la democrazia, la sicurezza, il benessere, lo sviluppo, le protezioni sociali. L’Italia si presenta all’appuntamento condizionata da un debito pubblico ormai prossimo ai 3 mila miliardi (2.933 al momento in cui scrivo, secondo il contatore dell’Istituto Bruno Leoni) monitorato da una Ue cui abbiamo fornito molti motivi per essere diffidente e, a questo punto, incline a metterci nel mirino, come dimostra il duro rapporto della Commissione sulla condizione dello stato di diritto nel nostro Paese. Insomma, sarà un autunno ancor più caldo della già torrida estate che stiamo vivendo. Per questo è bene staccare un po’, ma senza per questo perdere di vista i problemi, che purtroppo non vanno in ferie. Alla ripresa ci vorrà un supplemento di consapevolezza e di coraggio.

 

Nel frattempo, buone e serene vacanze. Ci ritroviamo a settembre.

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