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Il Coordinamento Nazionale Docenti della disciplina dei Diritti Umani oggi intende commemorare la giovane Santa Puglisi, i due bambini Giuseppe Cutruneo e Rosario Montalto, Mariangela Passiatore, il vicecomandante nell’istituto penitenziario dell’Uccciardone Calogero Di Bona e l’adolescente Luca Cottarelli, sei vite innocenti spezzate dalla criminalità organizzata attraverso le parole di due studentesse Barbara Mancuso e Giulia Vinci della classe III sez. C e G del liceo scientifico Filolao di Crotone:

Santa Puglisi, di 22 anni e vedova da quasi un anno, in un caldo pomeriggio di fine estate, 27 agosto del 1996, decide di andare a trovare il marito al cimitero di Catania. Il marito era stato vittima di un sicario in un agguato di mafia a novembre dei suoi 21 anni. Santa quel giorno al cimitero non era sola, ma con due suoi cuginetti di 14 e 12 anni.  Alle 15 si reca davanti alla cappella di famiglia per portare i fiori a suo marito Matteo Romeo. In realtà però oltre a Santa e i suoi cuginetti c’era anche un’altra persona: un killer che, senza troppi problemi, li seguì e appena Santa si piegò per poggiare i fiori sulla tomba venne perforata da una serie di colpi alla testa e alle spalle e morì sul colpo. Il cugino maggiore, Salvatore Botta, aveva visto la scena, quindi il killer fu costretto ad inseguirlo e ucciderlo. Miracolosamente in questo frangente la cuginetta piccola riuscì a fuggire e a mettersi in salvo. Alla Mafia non bastava aver distrutto la sua vita dopo averla resa vedova a 22 anni? No a quanto pare. La Mafia è spietata, ha sete di sangue. Il killer ha aspettato l’esatto momento in cui la ragazza porgesse i fiori al suo marito defunto, forse per sporcargli ancora una volta la faccia di sangue. E il tutto davanti agli occhi di due ragazzini, che già avevano conosciuto la cattiveria delle persone e il dolore di una perdita. E di nuovo come se non bastasse il killer ha strappato la vita anche del cuginetto che, quel giorno, semplicemente magari aveva deciso di accompagnare la cugina alla tomba, per darle forza, per condividere il dolore, per farle capire che non era sola. Forse è questa la domanda da fare: non vi basta ancora tutto questo, tutti questi innocenti uccisi, tutte queste persone che non avranno mai un futuro e non realizzeranno mai i loro sogni? A quanto pare alla mafia non basta la scia di sangue che porta con sé e che continuerà a portare, se non tornerà a trionfare la legalità.” (Giulia Vinci)

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Giuseppe Cutruneo e Rosario Montalto erano due bambini di 8 e 11 anni che in una calda giornata di fine agosto del 1987 avevano deciso di uscire di casa per giocare insieme. La mamma di Rosario improvvisamente sta molto male e va trasportata d’urgenza in ospedale e, i due bambini, in quel preciso momento, si trovano in Via Turati a Niscemi, dove, da lì a brevissimo, da un’Alfa Romeo partono innumerevoli colpi di proiettile con l’obiettivo di uccidere il giudice Bartolo e Salvatore Caniglia che sembrava volessero prendere in mano le indagini sullo spaccio di droga della zona. A ostacolare però la traiettoria dei colpi sono i deboli corpi dei due bambini. Giuseppe muore sul colpo mentre Rosario viene trasferito all’ospedale di Caltagirone dove morirà tre giorni dopo la sua cara mamma, a causa di gravi ferite al colon e ai polmoni. Questo è uno degli avvenimenti più dolorosi che siano mai accaduti per mano della Mafia. Due bambini innocenti, già scossi per il malore della madre di uno di loro, che si trovano per sbaglio nel mirino di un gruppo di esecutori, che però, presi dalla foga, dalla rabbia, dalla voglia di vendetta, di sangue e di soldi non tolgono il dito dal grilletto. I due bambini sono morti velocemente, ma come lo si spiega ai fratellini, ai cugini, agli amici di scuola perché sono stati uccisi? Come si può giustificare tutto questo? Le vite di questi bambini innocenti sono state spezzate così come tutte quelle delle persone che li hanno conosciuti perché mai torneranno indietro, come non torneranno mai indietro le infinite vittime innocenti di mafia che da più di un secolo vengono strappate via ai loro cari per sporchi giochi di denaro e di potere. Da giovane studentessa immagino un futuro dove, lo Stato con l’aiuto di tutti i cittadini, riporti la legalità e la giustizia per far sì che tutti possano vivere senza paura.” (Giulia Vinci)

Mariangela Passiatore nacque nel 1933, proveniente dal nord Italia decise nell’estate del 1977 di trascorrere le vacanze a Brancaleone in provincia di Reggio Calabria, insieme alle figlie e al marito, Sergio Paoletti imprenditore industriale di Cisanello Balsamo. Il 28 agosto di quell’anno, un gruppo di banditi entrò nella villetta in cui villeggiava la famiglia Paoletti, legò tutti eccetto Mariangela che venne sequestrata. Dopo un anno il marito offri 30 milioni di lire a chi lo avesse aiutato nelle ricerche della moglie purtroppo senza risultati, lui continuò a cercarla instancabilmente fino al 1995, anno della sua morte. Solo nel 2015 da alcune intercettazioni emerse una crudele verità secondo la quale, la Passiatore sarebbe stata prima stuprata e poi uccisa a bastonate. Mariangela non solo non ha avuto giustizia ma nemmeno il suo corpo è stato mai trovato. La mafia non risparmia nemmeno le donne, che possono diventare bersagli di violenze brutali, inclusi stupri e omicidi, per vari motivi: vendette, intimidazioni o semplicemente per dimostrare il potere e la ferocia dell’organizzazione.

Ad esempio, ci sono stati casi in cui donne innocenti sono state rapite, stuprate e uccise per mandare un messaggio ai loro familiari o per punire qualcuno. Tali atti di violenza non sono solo crimini contro le singole donne, ma anche attacchi contro l’intera società, volti a instillare paura e sottomissione. Un’intera società, che si voglia reputare tale ,non può accettare tali barbarie, non può restare in silenzio, non può girarsi dall’altra parte e fare finta di non vedere per poi stupirsi quando succedono cose orrende come quella che è accaduta a Mariangela Passiatore. La società del futuro auspico chieda e ottenga legalità perchè l’indifferenza per ogni misfatto finisca e vengano garantite per sempre giustizia e sicurezza, ma soprattutto la serenità di realizzare i propri sogni senza paura.” (Barbara Mancuso)

“Calogero Di Bona lavorava come vicecomandante nell’istituto penitenziario dell’Ucciardone quando morì il 28 agosto 1979 a Palermo, il giorno prima del suo trentacinquesimo compleanno. La sua morte avvenne nel totale silenzio. Il suo corpo non fu mai ritrovato e l’esecuzione del delitto rimase un’incognita. Tutto ciò che accadde fa, infatti, presumere che i suoi assassini fecero il possibile per non far trapelare nessuna informazione di quell’omicidio, così da uccidere anche il giudice Rocco Chinnici che aveva indagato su quella morte. Calogero Di Bona morì pertanto da innocente, con la sola colpa” di essere stato un fedele servitore dello Stato e di aver così irritato e scatenato l’ira omicida di Cosa Nostra.

La mafia cerca sempre di infangare il nome di coloro che lavorano per far sì che legalità e giustizia trionfino e quando la loro luce brilla troppo perché non sono persone corruttibili li elimina come è accaduto per il vicecomandante Calogero Di Bona, il giudice Rocco Chinnici, il giudice Giovanni Falcone, il giudice Paolo Borsellino e un numero infinito gli uomini che lavoravano nelle Forze dell’ordine, ma il loro sacrificio non è mai stato vano perché è grazie a loro che noi oggi abbiamo la forza, la voce e il coraggio di chiedere allo Stato di far sentire la sua presenza affinché la legalità non venga mai offesa e offuscata.” (Barbara Mancuso)

“Luca Cottarelli, ragazzo bresciano, aveva ancora tutta la vita davanti quando, il 28 agosto 2006, morì all’età di soli diciassette anni. La tragica vicenda avvenne in una villetta del quartiere Urago Mella di Brescia. I suoi spietati assassini lo uccisero a colpi di pistola per poi sgozzarlo con lo scopo di inscenare una rapina violenta, ponendo fine alla sua vita da adolescente e alla spensieratezza di quegli anni e facendogli pagare il prezzo di errori che non era stato lui a commettere. Fu, infatti, ucciso insieme ai suoi genitori a causa del pentimento di suo padre, che, dopo aver preparato delle fatture false per ottenere fondi dallo Stato, aveva deciso di uscirne fuori, inconsapevole che la sua decisione avrebbe scatenato la rabbia di coloro che al tempo erano suoi complici. Una rabbia talmente disumana da portarli ad uccidere sia lui che un ragazzo innocente.

Oggi, ancor più degli altri giorni, è doveroso ricordarlo soprattutto da parte di noi giovani, pensando in particolare a come questo ragazzo avrebbe voluto continuare a vivere una vita che gli è stata sottratta, la stessa che noi viviamo oggi ma che molto spesso non riusciamo ad apprezzare appieno.” (Barbara Mancuso)

Oggi Giulia e Barbara ci hanno ricordato cinque storie drammatiche e degne della nostra riflessione, dando prova di attenzione vigile per le pagine sociali e storiche del nostro passato. È un bel messaggio di speranza e sensibilità da parte di giovani, che attraverso lo studio e le loro capacità introietteranno valori importanti per il cambiamento e la trasformazione culturale del nostro Paese.

Il Coordinamento Nazionale Docenti della disciplina dei Diritti Umani rileva come il progetto “#inostristudentiraccontanoimartiridellalegalità” stia diffondendo tra le giovani generazioni volti, storie, episodi veramente straordinari per la loro valenza educativa.

Prof. Romano Pesavento

Presidente CNDDU

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