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Il senso delle cose

di lorenzo merlo

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Non v’è cosa priva di senso quando da prede del nostro stesso giudizio, diveniamo maghi capaci di comprendere il mondo.

 

Vita natural durante, senza avvedercene, è come se separassimo dall’infinito alcuni elementi o dati. Indipendentemente da quali questi siano, essi sono sempre colti nel rispetto del filtro della nostra biografia. Solo in questo modo, in essi troviamo un senso, una ragione e anche una logica. Una triade che senza soluzione di continuità vive in noi e ci induce a definire la realtà che in essa vediamo come la realtà. Anche quella che misconosciamo, affermata da altri a mezzo del medesimo identico processo.

 

“Separiamo dall’infinito” in quanto ognuno, in ogni momento ne coglie ed afferma una delle sue prospettive, evidentemente già esistente nel grande volume quantico che tutto contiene. Dati o elementi che vengono all’essere nella storia a causa della nostra presunta osservazione del mondo. Inconsapevoli di questa reciprocità e sospinti dal proprio diritto di ragione – anch’esso figlio della nostra biografia e forte in modo direttamente proporzionale all’importanza che diamo a noi stessi – procediamo a cavallo del nostro Aquilante con lo scudo crociato della verità da imporre. Le unità di intenti elevano questa modalità da individuale a sociale. L’esportazione del Cristianesimo e della Democrazia di facciata ne sono due esempi.

 

Se quindi abbiamo a che fare con un infinito di cui non ci accorgiamo e di cui siamo espressione, abbiamo anche a vedere con l’eternità. Ma svolgendosi tutto nell’oscuro sottoscala della coscienza, non possiamo tenerne conto. Se potessimo farlo, prenderemmo consapevolezza che l’eterno ritorno, la circolarità del tempo e la sua durata variabile, non sono cibo per illusi, né parole ciarlatane, ma utili informazioni per evolvere spiritualmente e socialmente. Ovvero per generare relazioni emancipate dall’unità di misura individuale e ideologica o acritica.

 

Reazione e riflessione sono gli estremi opposti adatti a rappresentare, almeno in parte, la presenza o l’assenza di consapevolezza – e di condizioni per esprimerla – che il nostro io, non è che un attimo quantico di eternità, entro il quale pretendiamo di ordinare il mondo o ci disponiamo a constatare verità ultra-storiche.

In funzione del gradiente di consapevolezze utili all’evoluzione, le relazioni pressoché permanenti con parole e immagini, generano ascolto o reazione. Il primo allude al disinteresse alla difesa di sé quando corrisponde ad un’idea differente dalla nostra e, a quello di unirsi alla forza altrui, quando invece essa coincide. Il secondo ne è l’opposto. Infatti, la reazione è il disegno di una chiusura a protezione/affermazione di sé, che si esprime nella fuga o nell’attacco.

In caso di ascolto si alza il rischio di riconoscere il senso, cioè la verità, presente nell’affermazione altrui, qualunque essa sia. L’ascolto, sospende l’identificazione con il proprio giudizio, evita che questo ci trascini lontano dal significato con quanto siamo entrati in relazione. L’ascolto appoggia sull’accredito dell’interlocutore. In ciò risiede il potenziale di avvicinamento e comprensione dell’universo che abita l’altro, ovvero di riconoscere il punto di mira con il quale sta traguardando il mondo. La reazione è il sintomo della grave patologia dell’identificazione di sé con il proprio giudizio. Una malattia spiritualmente arida che ci rende inetti a vedere il senso delle cose, la realtà, il filo rosso della biografia del prossimo.

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