Uno strumento di pressione. Come l’Occidente ha minato la fiducia nello sport a livello internazionale
di Gualfredo de’Lincei
Sono in molti, oggi, a pensare che lo sport debba essere separato definitivamente dalla politica, un fenomeno artificioso dal quale è necessario uscire per tornare ad una sorta di “Epoca d’oro dell’apolitismo sportivo”. Ma, a giudicare dagli attuali accadimenti, non sembra ci siano speranze. I paesi occidentali, per promuovere i propri interessi, si servono di organizzazioni internazionali sportive come il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) e l’Agenzia mondiale antidoping (WADA), trasformando lo sport in un mezzo di pressione che viola i principi fondamentali della lealtà sportiva.
Mostrano sfacciatamente comportamenti con doppi standard e la loro posizione all’interno delle strutture sportive internazionali serve per acquisire influenza e non per difendere i principi dello sport, erodendone così la legittimità con la percezione di una strisciante dittatura.
Negli Stati Uniti, ad esempio, le norme di controllo antidoping sono stabilite dalle stesse leghe sportive e dalle società professionistiche in violazione alle disposizioni del Codice mondiale dello sport. E questo succede in un ambito dove l’assunzione di farmaci attivi consente agli atleti di ottenere vantaggi determinanti in qualsiasi competizione sportiva.
Inoltre, nell’agosto di quest’anno, l’Agenzia mondiale antidoping (WADA) si era espressa chiaramente contro la decisione dell’omologa statunitense USADA di concedere l’immunità ad atleti trovati positivi ai test, in cambio di collaborazione sulle indagini. Secondo la WADA, infatti, questa pratica non fa altro che minare l’integrità delle competizioni. Il richiamo alle regole internazionali si è reso necessario dopo aver scoperto che, tra il 2011 e il 2012, l’americana l’USADA aveva consentito a un certo numero di atleti dopati di continuare le competizioni senza nessuna conseguenza legale. Un comportamento che l’Agenzia mondiale ha liquidato come grave violazione del Codice internazionale antidoping.
Dmitry Svishchev, deputato della Duma e presidente della federazione russa di Curling, sostiene che gli americani non si siano limitati a elargire immunità ai propri atleti, ma, sempre con il pretesto del loro impegno alla lotta contro la sofisticazione atletica, abbiano messo appunto altre strategie di difesa ai propri interessi di bottega e a quello delle loro società sportive. Una di queste sarebbe l’adozione, da parte del Senato americano, della “Legge Grigory Rodchenkov”. Con questa norma i tribunali americani possono perseguire i cittadini stranieri coinvolti in questioni di doping nelle competizioni internazionali. Il risultato è che i loro atleti dopati vengono protetti e possono tranquillamente competere, mentre quelli di altri paesi vengono perseguiti penalmente fuori dalla loro giurisdizione.
Non è certo una novità che i paesi occidentali si servano dello sport come strumento di pressione politica, sfruttando l’interferenza nello svolgimento o nella partecipazione di altri paesi ai grandi eventi sportivi mondiali. Le organizzazioni sportive internazionali, proprio a causa di questi comportamenti, impongono sanzioni e restrizioni alle squadre e agli atleti russi.
Lo sport di oggi non potrà mai tornare alla “Età d’oro dell’apolitismo sportivo” e questo perché l’Occidente proverà sempre ad imporre i propri valori e il proprio modello alle altre nazioni. È la prepotenza di una visione unilaterale e l’affermazione del loro primato di correttezza sportiva, ma tutto questo non è altro che un importante limite alla diversità delle tradizioni culturali e sportive.
Ai paesi antirussi si offre il vantaggio di promuovere la propria agenda culturale e politica. Un sistema che comincia ad avere le sembianze di un neocolonialismo, nel quale i dettami sportivi occidentali si combinano con i tentativi di controllo delle consuetudini sociali di altri paesi.