A lei superiori
di lorenzo merlo
La presunta indipendenza dell’uomo sul resto del mondo, l’impedimento culturale che ci impedisce di riconoscere la terra come un organismo di cui siamo espressione, l’ideologia del progresso che ci induce a rimanere concentrati sul nostro interesse misurabile, ci hanno portati alla decadenza generalizzata, alla lotta tra poveri, alla separazione da chi ci rappresenta, allo svuotamento spirituale della democrazia e anche a credere che il cambiamento climatico sia nostra responsabilità.
Ciò che c’è
La cultura che ci avviluppa, nei suoi popolari svolazzi, si mostra nelle battute da bar, nei titoli dei giornali, nei testi delle pubblicità. Sotto la superficie che tutto ricopre, in profondità se ne trova il cuore nei vanti della scienza, nella concezione del prossimo, della vita e di se stessi, nell’ideologia del progresso, nella medicina, nell’educazione, nella formazione (un’eccellenza), nella comunicazione o presunta tale.
Tale brodo di coltura in cui, più o meno tristi, tutti sguazziamo, nuotiamo, navighiamo o naufraghiamo è convenzionalmente detto materialista. Vale a dire, concentrato sulla dimensione cosiddetta materiale della realtà e di tutto. Ne deriva che intelligenza e creatività, scorrazzano nel limitato campetto di gioco governato da regole, linguaggio e significati definitivi, ai quali tutti possono e devono attenersi al fine della propria integrazione sociale o, al contrario, per non venire emarginati.
È il campetto del meccanicismo, cioè quello dove tutte le relazioni con qualsivoglia elemento della realtà, umano e non, emergono da uno sfondo di calcolo al fine della prevedibilità e modifica. In cui, il potere assoluto attribuito alla logica non lascia scampo al pensiero degli uomini che ne sono schiavi, propagandisti, giudici. Come i crociati avanzano a spada sguainata in mano e diritto di morte nel cuore. La loro presunzione è apicale, niente e nessuno può far cambiare loro idea. Neppure i culmini del loro discorso da paladini della cultura: la mortificazione generale delle persone, la guerra come pratica ordinaria, i soprusi e la violenza che, incuranti, si lasciano alle spalle del loro passaggio.
Alla natura materialista e meccanicista della cultura in corso, fanno seguito e corpo quella positivista, progressista, capitalista, razionalista. E anche la conoscenza come accumulo di dati, ovvero tutto ciò che l’unità di misura logico-razionale può quantificare, e oggi – non plus ultra – mercificare: se non hai un qualche valore misurabile, non sei.
Null’altro che, nel rispetto delle regolette del campetto di gioco prima citato, non possa venire dimostrato, e quindi riprodotto a volontà tutte le volte che lo si desidera, ha la dignità del reale.
L’esaltazione plebiscitaria della meritocrazia, ne è una sconsolante conseguenza, così come lo è stata la democrazia. Entrambe, piccole verità secolari, pronunciate come universali, ma semplicemente campionesse incontrastate di materialismo applicato agli uomini o di intelligenza ergastolana nei loculi delle ideologie e obesa di intellettualismo.
Con tale terreno sotto i piedi diviene normale concepire e quindi pensare e fare come se il mondo, esseri senzienti inclusi, fossero oggetti, cioè elementi inerti, nei confronti dei quali ci poniamo come al cospetto di una sedia: la utilizziamo alla bisogna, la sfruttiamo per sostituire la lampadina bruciata, la modifichiamo se non ci piace il colore, ce ne sbarazziamo anche se funziona ancora, la colpevolizziamo se cede sotto il nostro peso.
L’altro, l’altra parte non solo è suggestione non misurabile ma proprio non esiste, la cultura lo impone, il sistema funziona così, come una macchina di cui siamo pezzi e accessori quando non cagnolini con la testa dondolante.
Come altrimenti dare ragione alla politica che tutto fa meno che lavorare per concorrere a creare individui consapevoli di sé e della comunità a cui appartengono. Un lavoro permanente e lungimirante al quale ha preferito quello a breve termine offertole dalle leggi, ancora una volta, espressione materialista. In quale altro modo concepire la questione del genere, la maternità surrogata, la cancellazione delle culture, la prostrazione della tecnologia, il politicamente corretto, le quote rosa, la deliberata censura, il viatico del controllo e della sorveglianza, per tenere a bada miliardi di persone, per farne pupazzi.
Ciò che non c’è
Nulla è esente dal maglio materialista. La terra, l’intero pianeta, risulta così essere un oggetto, ovvero qualcosa di cui poter disporre senza neppure porsi il problema se esso ci può davvero appartenere, tanto da farne deliberatamene ciò che più ci aggrada. Per le medesime circostanze è esistita ed esiste la schiavitù, gli allevamenti che, più che chiamarli intensivi, è opportuno chiamarli della vergogna, o dell’abiura dell’uomo, la comunicazione creduta insita nel linguaggio logico e tanto altro.
Una differente cultura e quindi realtà e pensieri scaturirebbe da una concezione del mondo che non ci veda osservatori ma autori di quanto osserviamo. Realtà e conoscenza da oggettiva diverrebbero relazionale, ovvero terza cosa rispetto alle parti della relazione stessa. La consapevolezza dell’autonomia della relazione, comporta la presa di coscienza del modo condizionato, autoreferenziale, arrogante, nel quale si era prigionieri. Una premessa per avviare il modo dell’ascolto di quanto accade, una modalità di porsi che implica la piena dignità dell’interlocutore, alla pari con quella che vorremmo ci fosse accreditata.
La realtà nella relazione è quella in cui si muove l’esploratore. Questo, valuta e considera tutto e, se commette una sconvenienza, ha piena consapevolezza di esserne il solo responsabile.
Se nel modo della relazione, al pari della mente di Gregory Bateson, che ha vita propria, cioè comportamenti che non possiamo prevedere, dominare e determinare, significa che non siamo al cospetto di un oggetto ma di un organismo. Significa che applicare il meccanicismo ad oltranza, senza la consapevolezza del suo essere elefante in cristalleria quando la relazione va oltre i campetti normati, è l’espressione di una patologia culturale terminale.
Campioni di consapevolezza che la realtà è nella relazione sono la madre e il maestro. Il figlio e l’adepto non subiranno pressioni né forzature, ma godranno di pazienza e rispetto. I loro cosiddetti fallimenti, lo saranno anche di chi se ha cura e i loro successi, li vedranno gioire insieme.
Il contrario della madre e del maestro sono la pretesa, l’indifferenza, il sopruso come prassi inconsapevole, autorizzata dal titolo o dal potere che l’ambito ci conferisce e autorizza ad esercitare. In questi casi, le conseguenze sono tendenzialmente di tipo spiacevole. Il meglio che da questa sterile modalità può nascere sono il kapò, il delatore e il sottomesso, il delfino, l’uomo stampino.
Matricidio
Ma se il modo della relazione, che comporta ascolto e tiene a bada l’autoaffermazione, induce a riconoscere l’organismo di cui facciamo parte, una natura dalla quale non possiamo mai essere altra cosa, significa che anche gli eventi meteorologici non ordinari che da qualche anno si stanno realizzando hanno a che vedere con la pratica dell’umiliazione, malefica deriva implicita nella concezione materialista del mondo. Null’altro che un’alterazione della stabilità che comporta sofferenza, che può divenire incontenibile. È un male di tipo sistemico: ogni intervento correttivo è parziale per definizione, quindi sostanzialmente inadatto e perciò peggiorativo in quanto più che correggere, alimenta la vita del paziente terminale.
Il controllo della meteorologia, l’ingegneria climatica, per ragioni economiche – come in Marocco e in altri paesi – o belliche – da chi ritiene di avere in sé il mandato di esportare il proprio modello e il diritto all’egemonia mondiale – non è ancora considerato la causa dei violenti, o fuori statistica, episodi di alluvioni. Si preferisce colpevolizzare tutti noi sudditi del loro capitalismo.
Come non lo è l’incremento di campi elettromagnetici per la guerra dello spionaggio e della guida di armi a controllo remoto nei confronti del comportamento anomalo di tanti animali e insetti. Tartarughe marine e delfini che deragliano incaponiti a puntare a terra anche se invitati a prendere il largo, api che spariscono dai territori di residenza, così come avevano già fatto cervi volanti e lucciole ai tempi del primo inquinamento socio-industriale del secolo scorso, la popolazione più che dimezzata delle farfalle monarca, causata dalle connaturate violenze chimiche e ambientali in seno al cosiddetto progresso.
Il mantenimento dell’equilibrio, istinto inestinguibile di ogni organismo senziente, non ha potuto assorbire la pesante invasività di certe azioni compiute sotto l’egida dell’egocentrico delirio di onnipotenza di certa umanità e, ancor più, sotto il patrocinio della narcisistica presunzione di essere altro dalla natura, di non avere con essa alcun legame e quindi, di non elaborare più un pensiero di rispetto e pari dignità, con le relative conseguenze di soddisfazione e bellezza. Urbanizzare i conoidi dei valloni, i bordi degli alvei dei corsi d’acqua, fare politica secondo la priorità assoluta dell’interesse economico, replicata indipendentemente dalle caratteristiche locali e ancor più da quelle bio-regionali, ne rappresenta il contrario.
Non significa che divenire immobili, non è in questi termini che si incarna il rispetto. Significa invece ringraziare, come facciamo con chiunque, per quanto essa ci offre. Come nei confronti di ogni essere senziente, l’organismo natura non può essere bistrattato. L’Emilia e la Valencia sono solo gli ultimi episodi di una collana di reazioni, indicatori di una tendenza, che forse mai la terra avrebbe mostrato se la relazione con essa non fosse stata tanto miserabile dal crederla conquistabile, se fosse stata vissuta come un organismo, di cui siamo peluria. Se gli uomini non si credessero altro da lei, se non avessero creduto di poter reciderne il legame, pensando perciò di poter vivere facendo a meno del sentimento per rispettarla quanto una madre. Quanto sacra origine.