di Pierfranco Bruni
Marcel Proust raccontò la favola della memoria. Raccontandola rese le parole di una musicalità in cui il tempo percepì le onde della fisicità della natura. Oltre Oscar Wilde.
“La realtà si forma soltanto nella memoria (…). I veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduto. … I ricordi non si spartiscono“. È Marcel Proust che ci racconta l’estetica del tempo e la metafora della memoria. Mi ha accompagnato per tutta la mia vita. Proust o la memoria. Proust e l’antirealismo. Il sentimento del tempo che cammina tra le pieghe dei giorni e si fa, appunto, memoria. Un sentimento che ha attraversato la letteratura del Novecento caratterizzandola in quelle metafore di straordinaria valenza estetica ed esistenziale. Ovvero nel senso del “perduto” e nell’orizzonte del “ritrovato”.
Di Proust, il cui nome completo era Valentin Louis Georges Eugène Marcel Proust, si celebrano quest’anno, i centocinquant’anni della nascita e nel 2022 i cento anni della morte. Celebrazioni tonde per uno scrittore da non lasciare nella nicchia del tempo perduto.
Uno scrittore che segna uno spartiacque tra l’ideologia del realismo e la desertificazione di una letteratura rappresentazione – duplicazione della cronaca con una letteratura mistero, sogno, tempo, destino.
Il tempo perduto che si libera dalla cesoie dei ricordi – nostalgie per farsi dimensione onirica del ritorno.
“Basta che un rumore, un odore, già uditi o respirati un tempo, lo siano di nuovo, nel passato e insieme nel presente, reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti, perché subito l’essenza permanente, e solitamente nascosta, delle cose sia liberata, e il nostro vero io che, talvolta da molto tempo, sembrava morto, anche se non lo era ancora del tutto, si svegli, si animi ricevendo il celeste nutrimento che gli è così recato. Un istante affrancato dall’ordine del tempo ha ricreato in noi, perché lo si avverta, l’uomo affrancato dall’ordine del tempo”.
È su queste traiettorie che l’opera di Marcel Proust ha offerto delle indicazioni non solo letterarie ma anche epistemologiche e “politiche” intorno alla visione di tempo e di memoria. Lo scrittore Guido Morselli nel 1943 aveva pubblicato da Garzanti un saggio con delle riflessioni attente e delle indicazioni metodologiche significative proprio su Proust. Un saggio che puntava immediatamente ad un Proust antirealista. Un titolo semplice ma suggestivo “Proust o del sentimento”. Era il 1943. La lettura che fa di Proust va proprio all’insegna di una letteratura antiideologica cesellando quegli aspetti che appartengono alla tradizione, al valore della tradizione, al linguaggio come espressione di sentimenti.
Morselli scrive: “L’arte è rivelazione della memoria, un risorgere in noi del passato. Ma la rivelazione non può aver fuoco che in coloro che abbiano rinunciato a vivere attivamente”. Morselli indica dei tracciati che risultano importanti anche ad una analisi successiva agli studi che verranno dopo il 1943, e spazzeranno via il modello di una dialettica progressista che girava intorno a Proust, e non sono pochi.
Il rapporto tra tempo e morte è ben considerato e tale rapporto è parte integrante del sentimento della memoria che trova, appunto, nella letteratura un intaglio di notevole tensione esistenziale. È la letteratura – sogno che scava nell’anima. La realtà è ben altra cosa.
Così Morselli: “La realtà in sé, esterna, non interessa Proust, e in arte il realismo non gli pare preferibile alla letteratura intellettuale, e a quella didascalica e programmatica. Non merita il nome di artista chi si contenta di ‘décrire les choses’, ‘de donner un misérable relevé de leurs lignes et de leur surface’. La realtà per lui altra cosa che il ‘déchet d’expérience’ a cui si fermano i realisti”. La letteratura non è descrizione, non è rappresentare il reale e non è giustamente un “residuo di esperienza”. Un concetto chiave. Morselli individua immediatamente il cuore e l’anima di quelle metafore che sono la chiave di tutto. Morselli sottolinea: “La memoria in Proust ha un valore particolare. Non gli serve per una pedissequa ricostruzione autobiografica: essa è, a suo modo, altrettanto creatrice in lui che presso altri la fantasia”.
In Proust non c’è una letteratura verità. Non può esserci. Non deve esserci.
“Ricordare è rimpiangere”. Perché, per non dimenticare Oscar Wilde, ben citato da Morselli, è necessario capire che “L’arte non rispecchia la vita, ma lo spettatore della vita”. Nella letteratura del ritorno è la nostalgia che diventa anima e incontra quella vita che si distanzia e si avvicina grazie all’interpretazione di una poetica. La poetica della grazia. Ma bisogna andare anche oltre.
“Si ama per un sorriso, per uno sguardo, per una spalla. Tanto basta. Allora, nelle lunghe ore di speranza o di tristezza, ci si fabbrica una persona, si compone un carattere. E quando, più tardi, si frequenta la persona amata, è impossibile ormai (per quanto crudele sia la realtà che ci vien messa innanzi) togliere quel carattere buono, quella natura di donna amorevole all’essere che ha quello sguardo o quella spalla, proprio come non possiamo, quando invecchia, togliere il suo primo volto a una persona che conosciamo fin dalla sua giovinezza”.
Infatti l’anima della letteratura del tempo e del viaggio si muove tra due giganti: Proust e Joyce. C’è una tradizione nella letteratura del Novecento che parte da due presupposti estetici.
Il tempio e il viaggio. Proust e Joyce costituiscono indubbiamente i due scrittori la cui visione narrativa è un viaggio tra due mondi: quello della metafora e quello del destino. Un unico percorso che si individua nell’avventura del personaggio. Ed è proprio il personaggio che rappresenta la centralità di un narrare teso tra il raccontare e l’uomo al di là della storia ma nel di dentro di una memoria che è soprattutto vissuto. Il destino del personaggio è l’avventura dell’iter narrante.
Occorrerebbe riparlare, dunque, di questi due scrittori attraverso l’anima dell’essere e dell’esistere in un raccordare la vita alla letteratura e il personaggio all’uomo. Un testo fondamentale e interessante resta il saggio di Giacomo Debenedetti. Titolo emblematico che ha, comunque, una sua storia e vive all’interno del dibattito culturale italiano: “Il personaggio uomo”. Un testo che spesso ritorno nei dibattiti sul ruolo dello scrittore e della scrittura.
Così afferma: “… in principio di ogni fase culturale si pone un’immagine informe e scontornata, suggestiva e perentoria, qualcosa come lo spettro di un’immagine, un suo ectoplasma trascendentale, che prescrive alla scienza e alle arti il loro cammino, inteso a ritrovare la collimazione tra il mondo dell’esperienza e quella intuitiva immagine del mondo, anteriore a qualsiasi esperienza”.
Proust e Joyce vengono presi come modelli da Debenedetti ma è tutta una realtà letteraria che ha un suo senso. E lo ha non in termini di collocazione soltanto ma in termini di valutazione storico – letteraria di un processo culturale che resta prioritario per capire i linguaggi, le espressioni, i simboli, la capacità della memoria nell’intreccio tra tempo e nuove identità.
Sia in Proust che in Joyce gioca una metafora ad intreccio il sentimento del viaggio. Un viaggio tra i personaggi ma soprattutto un percorso che si dichiara con la sua tensione ora onirica ora ironica ora chiaramente letteraria. Debenedetti dialoga con i personaggi. I suoi personaggi uomini. Ma il personaggio non è soltanto uomo in letteratura. È uomo che riscopre di essere identità nel fascino dell’avventura, la quale avventura è ritrovare il destino di quell’uomo della crisi che recupera nell’essenza del tempo il tempo della memoria. Ciò si verifica certamente in Proust e in Joyce ma si riscontri anche in scrittori come Mann, come Pasternak, come Pirandello. Il discorso si sposta sul rapporto tra romanziere e personaggio stesso. Infatti Debenedetti sostiene: “È risaputo che il romanzo, come lo conoscevamo dagli esemplari che nel secolo scorso ne hanno fondato la fortuna, era una piena assunzione di responsabilità del romanziere di fronte ai personaggi e alle loro vicende”.
Ma nel romanzo contemporaneo la psicanalisi ha giocato una partita importante e condizionante tanto da sviluppare un serio dibattito proprio in campo letterario. Voglio qui riferirmi a Jung. La maschera di Jung è tuttora presente. E trattasi di una metafora che vive nella contemporaneità dei nostri giorni. Secondo Debenedetti questa maschera non è “nient’altro che la faccia incollata sui nostri documenti di identità”. Mi pare comunque che una delle riflessioni più mature e più fortemente dibattute ancora oggi è il dialogo tra personaggi e destino. Certamente il destino qui assume le sembianze piuttosto metaforiche.
C’è una distinzione di fondo che ci giunge direttamente dalla concezione dell’ “epica della realtà” e dell’ “epica dell’esistenza”. Debenedetti preferisce l’“epica della realtà”. Chiaramente è l’ “epica dell’esistenza” che trova una sua interpretazione nel dibattito che viviamo oggi. Molte cose che scriveva Debenedetti hanno una loro chiarezza e si presentano a tutto tondo ad un dibattito sia letterario che storico ma è necessario che la letteratura si riconosca, nella nostra contemporaneità, nella problematicità di un tempo che pone appunto lo scrittore come il disegnatore di una profezia.
In un contesto di lacerazioni e di conflitti lo scrittore è costantemente afflitto da lacerazioni esistenziali che si dichiarano in quel mal di vivere che ha caratterizzato un’epoca. Un male di vivere che è dentro la coscienza certamente di un secolo ma indubbiamente è dentro la formazione dello scrittore o del poeta. Debenedetti pone una questione che è fondamentale. Discuterne significa aprire una stagione di confronti sia in campo storico-letterari sia in termini estetici. Un percorso inevitabile dentro il vissuto proustiano che, conoscendolo, ci ricorda: “I veri libri non devono essere figli della piena luce della conversazione, ma dell’oscurità e del silenzio“.
Il mio libro su Proust è previsto per il centenario della morte. Era nato il 10 luglio del 1871 a Auteuil-Neuilluy-Passy in Francia e morto a Parigi il 18 novembre del 1922. Marcel Proust ha accompagna tutta la mia vita alla ricerca del tempo perduto. Un tempo perduto dentro il tempo ritrovato. Ed è così nella dimensione del ritrovato: “Nulla è più doloroso di questo contrasto tra l’alterazione degli esseri umani e la fissità del ricordo, quando ci accorgiamo che cià che ha serbato tanta freschezza nella nostra memoria non può averne più nella vita, che non ci è possibile accostare nel nostro mondo esteriore ciò che ci appare così bello dentro di noi, ciò che ci desta un desiderio peraltro così individuale di rigoderne la visita”. Un immaginario oltre il limite. Oltre il limite c’è ancora il non limite della metafisica della memoria stessa.