Molti individui della mia generazione (poniamo nati intorno agli anni cinquanta), possono ritenersi (per certi versi), fortunati: guardando a loro stessi possono percepire di avere, tutt’ora un ruolo chiaro: genitori/nonni/pensionati. Se possono aggiungere a questi dati, l’avere anche interessi/necessità, che li tengono attivi, il quadro si completa.
Questa riflessione, congiunta ad uno sguardo a carattere sociale, può spingere ad alcune riflessioni riguardo ai molti “giovani” che, tenuto conto dell’età e del sistema di vita, possono, invece, sentirsi “senza un ruolo” per molti motivi.
Pensiamo ai “ruoli” che un individuo, a seconda dell’età, può percepirei di “occupare”. I bambini, ovviamente, se tutto va bene, sono “figli”. Nel tempo, studenti, poi figli in cerca (o meno), di occupazione. Dicevamo: in cerca di occupazione. Già, perché la cosa strana è che in Italia, nell’anno del Covid, risultano 220mila disoccupati in meno. Mentre Nell’Ue sono 2 milioni in più. Malgrado che i dati dell’Istat sull’occupazione, indichino, tra dicembre 2019 e dicembre 2020, una flessione di occupati nel nostro Paese pari a 444mila unità“. Sono le ottiche differenti che possono spiegare l’arcano.
Basti pensare che, c’è stato un lungo periodo di tempo in cui la disoccupazione risultava bassa, in ambito femminile, semplicemente perché le donne occupavano il ruolo di mogli/madri/casalinghe.
Oggi, in proposito, occorre ricordare che:
- Nel 2011 gli inattivi che non cercavano un impiego ma si dichiaravano disponibili a lavorare erano 2 milioni 897 mila. La quota di questi inattivi rispetto alle forze di lavoro crebbe, tra il 2010 e il 2011, passando dall’11,1% all’11,6%.
Parlando di confronti con l’UE, questo dato questo risultava superiore di oltre tre volte a quello medio europeo (3,6%).
Attualmente annotiamo che, a causa/merito, della legislazione dovuta al covid, beneficiano del Reddito di Cittadinanza 832 mila nuclei familiari, per un totale di 2,1 milioni di persone coinvolte, mentre la Pensione di Cittadinanza coinvolge 138 mila nuclei familiari, corrispondenti a 157 mila persone.
Ovviamente c’è da chiedersi cosa accadrà nel momento in cui questi benefici verranno meno.
Dunque, tornando al concetto di sentirsi “fuori posto, o senza un ruolo”, questo può accadere quando ad un individuo togliamo quello che linearmente in passato sembrava essere una sorta di “consecutio temporum” a carattere sociale: il passaggio
figlio/genitore/nonno. Qualcosa dentro l’animo potrebbe, anche inconsciamente, far sentire un individuo “de localizzato” socialmente. In molti casi disporrebbe dei mezzi per riconoscersi tramite il lavoro che svolge (medico/avvocato/insegnante/altro), per cui percepisce uno stipendio e vive contatti sociali. Così come un tempo le donne si riconoscevano quali fidanzate/mogli/madri/nonne. Anche se non ricevevano uno stipendio e non si identificavano in un ambito professionale. Oggi molte di queste “posizioni sociali identificatorie”, sembrano scardinarsi, laddove un essere umano, per molteplici motivi, non ricopre un ruolo in cui possa riconoscersi. In ambito lavorativo può non essere attivo. Può trattarsi di anomia; nelle scienze sociali questa parola esprime il disorientamento che vive un individuo quando non si identifica più con un sistema sociale e non è in grado di immedesimarsi nei suoi simili. Può accadere perdendo o non trovando un lavoro. Oppure può non riconoscersi in abito sociale, in quanto non vive un rapporto stabile sotto il profilo sentimentale, tipo matrimonio, o, anche, un rapporto di convivenza. Le donne, non sposate, non madri, non realizzate sentimentalmente, possono vivere una forte sensazione di spaesamento che in parte può trovare “sistemazione”, in ambito lavorativo (se il lavoro c’è). Tuttavia tenendo presente che ben sanno come la fertilità delle donne si riduca, già dopo i 30 anni, subendo un calo significativo dopo i 35 anni (50%) e più drastico dopo i 40 anni. E per le donne i figli, quando non nascono, assumono una valenza di “perdita”. Gli uomini, invece, non si pongono troppo il problema, visto che non ci sono studi concordi su quando si possa iniziare a parlare di “età maschile avanzata”. È, infatti, convinzione comune degli studiosi porla intorno ai 50-55 anni.
Possiamo ritenere che siano molti gli “Esseri umani pensanti”, calati eternamente nel ruolo di “figlio/a”? Di “adolescenti” a tempo indeterminato? Attualmente, laddove c’è persino una difficoltà ad adattarsi alla “identità di genere” ( anni fa un genitore un genitore canadese richiese che non venisse annotato il sesso del proprio figlio sul tesserino sanitario poiché il piccolo “capirà liberamente da grande in quale genere identificarsi”), le “certezze di ruolo” vengono meno sempre di più, per cui “un essere umano pensante”, nel momento in cui “pensa a se stesso”, può trovare difficile “definirsi” in un ruolo specifico.
“Uno, nessuno e centomila” oltre ogni immaginazione Pirandelliana.
Intanto, riferendoci al febbraio 2021, constatiamo che in Italia ci si sposa sempre meno. Dati Istat ci dicono che nel 2019 sono stati celebrati in Italia 184.088 matrimoni, ossia 11.690 in meno rispetto all’anno precedente (-6,0%).
Il calo riguarda soprattutto le prime nozze e anche le seconde o successive (-2,5%). Occorre dire che ogni cinque celebrazioni almeno uno sposo è al secondo matrimonio e che queste sono (chiaramente), celebrate prevalentemente con rito civile (94,8%). Il calo dei primi matrimoni è da porre in relazione in parte con la progressiva diffusione delle libere unioni (più che quadruplicate dal 1998-1999 al 2018-2019, passando da circa 340.000 a 1.370.000), anche nel caso di famiglie con figli.
Difatti l’incidenza di bambini nati fuori del matrimonio rileva: nel 2019 un nato su tre ha genitori non coniugati.
Calati i matrimoni e anche le unioni libere, i “giovani” sostano in famiglia e non si sposano. Restano dunque, ad occupare il ruolo di “figli”.
Le motivazioni sono evidenti:1) Aumento diffuso della scolarizzazione e allungamento dei tempi formativi; 2) Difficoltà nell’ingresso nel mondo del lavoro e condizione di precarietà del lavoro stesso; 3) Difficoltà di accesso al mercato delle abitazioni.
Ecco, quindi, che la propensione a sposarsi subisce un vero e proprio crollo. Cresce il numero di matrimoni tra i 35 e i 49 anni (+ 12,2% e +23,1%). Insomma, questi “figli” non più ragazzini, finiscono per posticipare (l’eventuale) evento verso età sempre più mature.
Attualmente i primi matrimoni che si verificano entro i 49 anni di età riguardano gli uomini, con in media 33,9 anni e le donne 31,7.
Dando uno sguardo alle seconde nozze annotiamo che la tipologia più frequente trova al primo posto quello in cui lo sposo è divorziato e la sposa è nubile (12.928 nozze, il 7,0% dei matrimoni celebrati nel 2019); seguono le celebrazioni in cui è la sposa divorziata e lo sposo è celibe (5,9 %) e quelle in cui entrambi sono divorziati (5,6%).
Sono crollate, inoltre, causa pandemia, matrimoni, unioni civili, separazioni e divorzi.
Ci guardiamo intorno: le convivenze “instabili”, specialmente laddove non vi siano bambini, lasciano presupporre che questi “esseri umani pensanti”, non intendano riconoscersi in un rapporto sociale in cui si senta la necessità di restare assieme e identificarsi come coppia che supera le difficoltà assieme. Questo implica ancora di più che tanti individui (uomini e donne, per essere semplicistici nei dati “di genere”), abbiano la possibilità di vivere in un costante stato di libertà, laddove non debbano individuarsi quali genitori, coniugi, partner impegnati e, tanto meno, non avendo messo al mondo figli, nella categoria di “nonni”.
Ferma la necessità dell’impegno lavorativo ( se c’è ed in cui, volendo, possono ampiamente riconoscersi, specialmente qual ora sia stato “davvero”, scelto). Possono (vogliono?), vivere un po’ alla giornata, trovando occasioni di divertimento, compagnie (non è detto che siano stabili), amicizie (queste, spesso, relativamente stabili). Possono o meno, vivere ancora in famiglia (genitori anziani, ovviamente), o possedere una abitazione propria, volendo, da condividere per brevi o lunghi periodi, oppure da non condividere neanche per brevi relazioni di coppia simil/matrimoniale.
È interessante annotare, dall’entrata in vigore della Legge Cirinnà (Legge 20 maggio 2016, n. 76), le unioni civili fra coppie dello stesso sesso. Quelle sembrano registrare una notevole forza. Basti pensare che (considerando sia le unioni civili costituite in Italia sia le trascrizioni di unioni costituite all’estero), nel primo anno e mezzo si sono registrate 6.712 unioni ( più le coppie di uomini: precisamente 4682, a fronte di 2030 coppie di donne), per un totale di 13 mila persone coinvolte, cioè 2 cittadini su 10 mila. Sembrerebbe che, in quel settore, ci sia una precisa volontà di “riconoscersi” quale coppia stabile. Forse proprio in contrasto con una società che lo ha vietato per secoli.
Bianca Fasano