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LA RETORICA IN UN PAESE PICCOLO PICCOLO

di Vincenzo Olita

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L’Italia calcistica batte l’Inghilterra e si aggiudica la competizione europea, ne siamo contenti e soddisfatti. Non altrettanto per il mix di retorica politica e calcistica generato ad arte che, con l’utilizzo di luoghi comuni funzionali a una fantasiosa lettura della realtà, ha contribuito al clima di sostanziale sciovinismo e banale nazionalismo che aleggia in questi giorni nel Paese.
L’Europa è nostra, La storia siamo noi, Siamo tornati al centro dell’Europa, Il calcio siamo noi, L’Europa siamo noi.Alcuni titoli dei quotidiani del giorno dopo, da non sottovalutare poi la stupefacente dichiarazione del ministro dell’economia Daniele Franco: “La Nazionale italiana a Wembley ha vinto a nome di tutta l’UE contro un paese che ha voluto lasciarla“. Il tutto per una partita di calcio e, a guardar meglio, per aver segnato un rigore in più dell’altra squadra. Alle nuove generazioni che, in buona sostanza ignorano i processi storici, abbiamo così indicato come si conquista la leadership di un continente.
Sulla certa risalita dei contagi di cui tanto si parla, tralasciamo le responsabilità, in primis, quelle di una ministra fantasma come Luciana Lamorgese, e poi della politica nel suo complesso, sui massicci assembramenti che essa stessa ha favorito e spesso stimolato, per ragionare sull’utilizzo strumentale delle affermazioni sportive.
Le vittorie ai mondiali del 1934 e 1938 furono vittorie fasciste, la vittoria agli europei del 2021 abbiamo scoperto essere una vittoria dell’Italia europeista, ma se avessimo battuto la Francia anziché l’Inghilterra sarebbe stata solo una vittoria nazionale che, funzionale alla retorica di un mito, ovviamente, non avrebbe potuto evidenziare la sua essenza europeista. Insomma cambiano i regimi ma non la cultura di certi Paesi; Quali? Certamente quelli totalitari, come dimenticare l’esasperato uso delle vittorie sportive nella Germania Est, nella Romania di Nicolae Ceausescu o nella Bulgaria di Todor Zivkov divenute immediatamente irrilevanti con i nuovi regimi politici. Lo sport come gratificazione, come patologica accentuazione delle potenzialità di una comunità nei Paesi carenti di convinta interiorizzazione delle proprie capacità, della propria tradizione e dello spessore del proprio sistema politico.
L’eccesso di retorica strumentale è sovrano nei Paesi, da questi punti di vista, piccoli piccoli, una dimensione cui spesso tendiamo senza averne consapevolezza. Aiutati da un sistema informativo che, più volte abbiamo evidenziato, essere un avariato sottoprodotto d’interessi partitici. La cronaca esaspera i toni esaltando inconsistenti banalità, i livelli più dotti, schierati sempre e comunque per uno dei due schieramenti a cui di fatto appartengono, si adoperano per fornire patina culturale anche ai più inconsistenti orientamenti partitici.
Un’informazione edulcorata nei grandi giornali, urlata nelle reti televisive, in tutti i casi, funzionale alla costante ricerca di consenso degli apparati politici.
Eppure se ne avverte il bisogno di urla dell’informazione; la ministra della Giustizia Cartabia visita il carcere di Santa Maria Capua Vetere promettendo una pronta riforma del sistema penitenziario, l’ennesima, considerato che non vi è stato titolare del ministero di via Arenula che negli ultimi decenni non abbia posto il problema, non risolvendolo ma neppure affrontandolo organicamente. Intanto, tra piccole amnistie e indulti la vita nelle carceri scorre indecorosa per un Paese dell’Europa.
Se ne avverte il bisogno di urla dell’informazione per evidenziare la gestione di molte zone sanitarie specialmente nel mezzogiorno. Per occuparci della condizione dei nostri vecchi nelle cosiddette case di riposo per non abbienti. Per le famiglie lasciate sole a sopportare il peso di un congiunto con dipendenza da alcol o da droghe. Per l’abbandono della sanità pubblica dei malati di Alzheimerche non trovano possibilità di degenza per meno di 150 € giornaliere. L’elenco delle sofferenze potrebbe continuare ma basta soffermarsi su questi aspetti della nostra arretratezza per convincerci che non siamo tornati al centro dell’Europa, dove,del resto non ci siamo mai stati.

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