di Giuseppe Lalli
Capita ogni giorno di leggere, sui più disparati argomenti, su Internet o sui nuovi strumenti di comunicazione di massa, i cosiddetti social, opinioni e commenti dove è spesso arduo distinguere il vero dal falso, le argomentazioni ben documentate e approfondite da quelle semplicemente “orecchiate” e superficiali, ricavate non da una personale e rigorosa ricerca, ma semplicemente da una frettolosa compulsiva consultazione fatta al computer e finalizzata dall’autore a dimostrare ai suoi simili che esiste.
Quando chi scrive queste note frequentava la scuola elementare, per le piccole ricerche assegnate dalla maestra, di solito persona che aveva ben meritato di ricoprire il suo ruolo di educatrice, si era soliti consultare l’enciclopedia “Treccani” o una “garzantina”, vale a dire che ci si serviva di uno strumento adeguato. Era già una prima educazione ad una corretta metodologia. Al giorno d’oggi, invece, chiunque può reclamare il diritto di scrivere di storia locale (tanto per fare un esempio…) senza alcuna specifica competenza, potendo esibire solo la sua abilità nell’assemblare notizie ricavate da Internet, un luogo dove spesso ci si limita a censire notizie trascritte da pubblicazioni divulgative a loro volta per nulla preoccupate di controllare le fonti delle notizie che si inseriscono nel circuito dell’informazione.
Ne parlavo qualche settimana fa con un amico e non lontano parente, e ne ricevevo pieno conforto. Il criterio della competenza dovrebbe valere nel campo della storia locale come in qualsiasi altro ambito professionale. Non è corretto affermare che in materia di scienze umane (storiografia, filosofia, critica letteraria, teologia, ecc.), a differenza delle scienze della natura (le cosiddette “scienze dure”), si può impunemente dire tutto e il contrario di tutto, come se qualsiasi espressione, nel campo umanistico, potesse avere diritto di cittadinanza.
Ciò che distingue le une scienze dalle altre non è il diverso metodo ed approccio (rigoroso per le scienze naturali e approssimativo per quelle umane) ma la diversa natura dell’oggetto di studio. Nel caso delle scienze umane l’oggetto della ricerca, o, per meglio dire, il soggetto, è, in definitiva, l’uomo stesso; e ciò comporta sicuramente una maggiore cautela, ma non per questo un minore rigore scientifico. Lo stesso linguaggio scientifico propriamente detto non può fare a meno di quelle conoscenze logico-linguistiche e storiche che ci provengono dalle discipline umanistiche.
Farò, sul tema di cui si tratta, un esempio. Allo scrivente capita di leggere scritti che hanno per oggetto la storia secolare del borgo di Assergi. Ebbene, molte delle cose che si leggono in questi scritti sono inesatte o destituite di fondamento storico. Non è corretto, scrivendo di storia, mettere sullo stesso piano fatti documentati, ipotesi ragionevoli, congetture poco o mal fondate e racconti fiabeschi. Occorre saper discernere e argomentare ciò che si scrive quando si fa storiografia e, in ogni caso, è richiesta sempre la puntuale indicazione delle fonti, altrimenti non siamo di fronte ad una trattazione storica, ma a un racconto orecchiato.
L’esperienza personale sopra illustrata, e tante altre simili che si potrebbero citare, sta a dimostrare che se da un lato i nuovi mezzi di comunicazione, e Internet in particolare, hanno contribuito a diffondere le notizie con una velocità inimmaginabile solo fino a qualche decennio fa, dall’altro la “democratizzazione” della cultura è un’arma a doppio taglio: la quantità delle notizie e l’ignoranza spesso procedono di pari passo. Solo in apparenza siamo oggi più informati e più colti rispetto al passato.
In realtà – e il dato è drammaticamente preoccupante – da recenti ricerche risulta che in Italia (ma la situazione non deve essere molto differente in ambito europeo) almeno un terzo delle persone alfabetizzate, compreso un certo numero di laureati, non è in grado di interpretare compiutamente un testo scritto in maniera concettualmente articolata, ciò che viene definito dagli esperti “analfabetismo funzionale”. Gli strumenti messi a disposizione dalla tecnologia non autorizzano scorciatoie: lo studio serio sarà sempre «noia, sforzo inaudito, tirocinio paziente», come scriveva un grande intellettuale italiano agli inizi del secolo scorso.
La scienza e la cultura specialistica, per definizione, non possono essere democratiche, checché se ne pensi e se ne dica, nel senso che non possono essere soggette al consenso della maggioranza. Varrà sempre, nell’economia della conoscenza, una gerarchia delle competenze destinata ad imporsi per sua intrinseca logica. Democratico, nel senso di liberale, semmai, deve essere il contesto politico nel quale la ricerca scientifica, quale che sia l’ambito di applicazione, nasce e si sviluppa.
A questo proposito sarebbe opportuno che ciascun sito destinato a diffondere notizie di un certo spessore si dotasse di una sorta di piccolo comitato scientifico che fungesse da filtro. La stessa norma giuridica dovrebbe intervenire a regolare una materia tanto delicata e foriera di implicazioni sociali. Diversamente, c’è il serio rischio che non sarà solo la scienza a risentirne negativamente, ma a lungo andare sarà lo stesso sistema democratico a veder compromesso il suo prestigio. In ogni caso, non c’è da farsi molte illusioni: l’ignoranza non si potrà mai perseguire penalmente.