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di Enrico Cisnetto

GOVERNARE L’EMERGENZA

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DELLA QUARTA ONDATA

CON SCELTE FORTI E CORAGGIOSE

È PREMESSA PER SALVARE IL PAESE

DAL “COMA ISTITUZIONALE”

È venuto il momento di voltare pagina, e come è sempre accaduto nella politica italiana, le emergenze aiutano. Infatti, mentre quel che resta del sistema politico ormai al default passa le giornate ad avvitarsi intorno alla vicenda Quirinale senza avere né le idee né la credibilità per sbrogliare la matassa, e mentre il Governo è costretto a pagare al bene primario della stabilità lo scotto di compromessi sempre più frequenti e sempre meno tollerabili, la quarta ondata del Covid – pesante e pericolosa – costringe tutti a rischedulare le priorità.

 

Intanto, torna al centro dell’azione dell’esecutivo la politica sanitaria. Sarà bene che in tempi rapidi si assumano decisioni sia sui ritmi di somministrazione della terza dose del vaccino, sia per quanto riguarda l’atteggiamento da tenere nei confronti dei non vaccinati (per scelta). E sarà indispensabile che su questo terreno, recuperando il decisionismo iniziale di quando si è insediato il generale Figliuolo alla testa della campagna vaccinale, il presidente Draghi e i ministri non indulgano ad alcuna mediazione con i populisti che maneggiano in modo scriteriato presunte verità alternative, titillando quel mondo “no vax” e “no green pass” che il prestigioso settimanale tedesco Der Spiegel, osservando la piega drammatica che ha (ri)preso la pandemia in Germania, ha definito “una federazione di imbecilli”.

 

Non ho le competenze tecniche necessarie per indicare le scelte più idonee, ma facendo leva sul buonsenso e leggendo alcuni autorevoli pareri, penso che si possa arrivare a quattro ragionevoli conclusioni. La prima: va accelerata la somministrazione della terza dose. La seconda: va estesa la platea di coloro a cui è fatto obbligo di vaccinarsi, indicando in modo inequivocabile le sanzioni a cui vanno incontro i renitenti e organizzando i relativi controlli (possibilmente più efficaci di quelli previsti per l’erogazione del reddito di cittadinanza). L’alternativa è l’obbligo vaccinale generalizzato, come l’Austria ha deciso di istituire dal 1 febbraio. La terza: va rimodulato il green pass, sia abbassandone il valore temporale (non oltre 6 mesi) sia limitando la concessione e l’uso ai soli vaccinati. E questo deve valere non solo per chi ha rifiutato la prima dose, ma anche per chi non si sottopone al secondo e terzo richiamo. La quarta: se, pur facendo tutti gli scongiuri possibili e immaginabili, la situazione dovesse peggiorare, prima di arrivare a un lockdown totale anche per i vaccinati (come il governo austriaco ha ordinato già dalla prossima settimana), si passi attraverso un blocco per i soli non vaccinati (ovviamente esclusi coloro che hanno comprovate ragione mediche per non potersi vaccinare).

 

Su quest’ultimo punto considero tombali le parole spese pubblicamente dal mio amico professor Mario Bertolissi, costituzionalista e docente emerito all’Università di Padova: “il principio di non contraddizione che ispira la nostra civiltà giuridica greco-romana ci diffida dal trattare in modo uguale chi compie atti diversi”. Nello stesso tempo la nostra Costituzione “è inequivocabile nel garantire l’uguaglianza di diritti a chi si trova nella stessa condizione, non a chi opera in modo difforme”. Ergo: non solo è “legittimo ed equo limitare il lockdown ai non vaccinati, ma sarebbe incostituzionale fare il contrario”. Naturalmente partendo dal presupposto che chi si immunizza riduce il rischio per se stesso e per gli altri – certo che non lo annulla, cari “imbecilli”, il rischio zero non esiste e non può essere preso a metro di misura dell’efficacia non solo dell’anti-Covid ma di qualunque opera umana – mentre chi rifiuta l’antidoto mette a repentaglio la propria e l’altrui incolumità, aggravando la generale situazione pubblica. E, anzi, proprio il fatto che la vaccinazione non sia obbligatoria per tutti, mette ciascuno nella condizione di esercitare un diritto di libertà, a cui però non può non corrispondere una conseguente responsabilità. Che si traduce nel dovere di sottostare a limitazioni, decise da Governo e Parlamento in nome del “bilanciamento delle tutele”.

 

So che nel Paese è montata una fronda contro quanto ho appena scritto. E ad agitarla non è solo il fronte dell’imbecillità, che evoca lo spettro di una presunta “dittatura sanitaria”, tema cui danno eco, con accenti diversi ma usando un comune linguaggio populista, alcuni organi di informazione di destra. No, c’è anche una pattuglia di intellettuali di sinistra che si sono attestati lungo una linea di denuncia più sottile, che è quella del pericolo derivante dal protrarsi dello stato di emergenza e dunque dei poteri straordinari che esso consente di usare. Si tratta di un tema serio, che va affrontato senza forzature ideologiche. Ma anche con la dovuta fermezza. Sbagliano coloro – da Massimo Cacciari alla filosofa Giorgia Serughetti – che sostengono esserci una relazione diretta tra la strumentazione normativa emergenziale e l’avvento di una democrazia tecnocratica, in cui non meglio precisate “élite politiche ed economiche”, volgarmente dette “poteri forti”, agiscono parlando in nome dell’interesse del Paese ma fregandosene degli orientamenti dei cittadini-elettori. Per costoro l’avvento di Draghi è la prova provata dell’indebolimento, se non addirittura della prevaricazione, della democrazia. Ma parlare di “torsione oligarchica”, facendo risalire a questa la nascita e l’implementazione dello spirito anti-establishment dei populismi, significa dimenticare la crisi di rappresentanza dei partiti, la caduta verticale della qualità del personale politico – addirittura rivendicata come merito nell’enunciare e praticare il metodo del “uno vale uno” – e la perdita di prestigio e credibilità delle istituzioni repubblicane. È da ciò che nasce quella condizione di minorità del sistema politico-istituzionale che ha generato la sfiducia e la disaffezione, poi tradotta nel crescente astensionismo elettorale o, peggio, nel qualunquistico riporre speranza in chi urla più forte e manda tutti a quel paese (il “vaffa”, di cui ora nessuno rivendica più la paternità). Per cui Draghi è una conseguenza, non una causa.

 

Diversa, invece, è la riflessione a cui ci richiama Michele Ainis, ponendo il tema di “quanto a lungo può protrarsi il regime d’eccezione, senza rovesciare l’eccezione in regola”, perché la risposta che la nostra Carta suprema da al quesito è che “il timone delle crisi è affidato al Parlamento”, al quale è consegnato il potere di deliberare la massima emergenza possibile, lo “stato di guerra”. Ma se è il Parlamento il cuore del sistema, non possiamo sottrarci alla valutazione del suo stato di salute. E la diagnosi è impietosa: crisi comatosa profonda delle assemblee legislative. La cui reversibilità, visto il lungo tempo da cui dura, è ormai affidata ai miracoli (anche perché gli interventi, come la riduzione del numero dei parlamentari, si sono rivelati improvvidi). Di qui lo “stato di eccezione” rappresentato da Draghi. Il quale non misura, come dicono gli stolti, dal fatto che non sia stato eletto – visto che la Costituzione non richiede che il presidente del Consiglio sia un parlamentare e visto che è una bufala (che circola imperterrita dal 1994) che i cittadini siano chiamati ad eleggere un premier – ma dalla mancanza di un disegno riformatore che aiuti partiti e istituzioni parlamentari ad uscire dal “coma”.

 

Per questo dico che occorre voltar pagina. Bisogna, da un lato, riprendere a percorrere la strada delle decisioni rapide e forti (e, se necessario, impopolari), mettendo in campo tutta l’autorevolezza di cui Draghi dispone (e che la grande maggioranza del Paese gli riconosce). Mentre dall’altro, occorre dare un significato più complessivo e alto alla presenza di Draghi alla guida del Governo, inserire la sua azione dentro la cornice di un disegno politico che favorisca la transizione dei partiti, il ricambio della classe dirigente, la riscrittura delle regole, la ridefinizione dell’architettura istituzionale. In una parola un grande disegno di rinascita – morale e culturale, prima ancora che politica ed economica – e modernizzazione dell’Italia. La scorsa settimana ho suggerito al presidente del Consiglio di scrivere una “nota aggiuntiva” in stile Ugo La Malfa per il rilancio dell’economia e la stabilizzazione della crescita. Oggi vado oltre: occorre che Draghi promuova una “nota aggiuntiva”, cioè un documento programmatico, che riguardi l’intero sistema-paese. Senza il quale il suo passaggio a palazzo Chigi rischia di restare un’incompiuta, utile ma non decisivo, e per di più esposto al ludibrio dell’imbecillità.
 

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