L’ITALIA AFFETTA DA STRABISMO
CHIUDE UN OTTIMO 2021
E APRE UN 2022 PIENO DI INCOGNITE
(IN ENTRAMBI I CASI A SUA INSAPUTA)
di Enrico Cisnetto
Maledetto strabismo, confondiamo il più con il meno e viceversa. L’anno che si sta per chiudere presenta un bilancio decisamente positivo, ma l’effetto distorcente della rappresentazione della realtà rischia di far prevalere una lettura opposta, mentre il nuovo anno si apre all’insegna di molte incognite, ma occhiali sfocati ci inducono a sottovalutarle e quindi a non prevenire i problemi. Con il risultato che sbagliamo sia il bilancio consuntivo (2021), sia quello preventivo (2022). Cerchiamo dunque di fare un po’ di chiarezza.
Dodici mesi fa, di questi tempi, stavamo archiviando un 2020 drammatico: eravamo nel pieno della pandemia senza avere né la strategia né gli strumenti per affrontarla, mentre la recessione ci presentava un conto spaventoso di quasi dieci punti di ricchezza nazionale perduti. Il Paese era nelle mani di un governo leggermente meno peggio di quello che l’aveva preceduto, ma pur sempre fallimentare, non fosse altro perchè era guidato (si fa per dire) dallo stesso signor nessuno che aveva dato lunga prova della sua nullità. Da allora molte cose sono cambiate: il governo rossoverde ha ceduto il passo ad una larga maggioranza di salvezza nazionale (per merito di Renzi) e l’avvocato Conte è tornato nell’anonimato da dove era venuto, per lasciare il posto a Draghi (per merito di Merkel), cioè l’unico italiano dotato di una forte credibilità internazionale, tale da rimetterci all’onore del mondo (e dell’Europa, prima di tutto). Da febbraio, in pochi mesi, il piano delle vaccinazioni di massa è decollato, rivelandosi molto più efficace di quanto nessuno potesse scommettere. La ripresa economica è via via cresciuta d’intensità, fino a farci passare da una previsione di un recupero di quattro punti e mezzo di pil a più del 6%, proiettando già nel primo semestre del 2022 il pieno recupero di quanto perso nel 2020. L’Italia ha così avuto la sensazione di essere finalmente governata da un presidente del Consiglio competente e capace di prendere decisioni, anche quelle ritenute, a torto o a ragione, impopolari. Insomma, un salto quantico, persino corroborato nell’immaginario collettivo da alcuni risultati sportivi nazionali tanto gratificanti quanto imprevisti.
Naturalmente ogni rosa ha le sue spine, e negli ultimi tempi l’apprezzamento verso Draghi e il suo esecutivo ha dovuto resistere ad alcune delusioni. Si tratta di scelte – rifinanziamento del reddito di cittadinanza, rinvio della riforma delle pensioni (salvo il non disprezzabile accantonamento di quota 100, ma solo a favore di quota 102 per un anno), riforma fiscale solo parziale, manovra di bilancio poco coraggiosa e troppo somigliante a quelle del passato – tutte rispondenti più alla salvaguardia della stabilità politica che alla vera innovazione. Indirizzo necessitato da una crescente insofferenza dei partiti e, da ultimo, da una parte del mondo sindacale, cui Draghi ha ritenuto di opporre la prudenza anziché la sfida. Non voglio credere a chi malignamente sostiene che l’abbia fatto per tenersi quanto più aperta possibile la strada che va da palazzo Chigi al Quirinale, tuttavia penso che si sia trattato di un errore, perchè in certe situazioni si ottiene più stabilità usando la frusta della provocazione (“io decido, e se non vi va bene andate in Parlamento e sfiduciatemi”) che non il guanto di velluto dell’accondiscendenza (come ho già scritto una volta, le mediazioni sono come le ciliegie, mangiata una non ti fermi più). Per fortuna Draghi non ha commesso questo tipo di errore con Cgil e Uil, che non aspettavano altro che essere semplicemente convocati per cancellare uno sciopero generale tanto inutile quanto fallimentare (e anche qui non voglio credere, come si dice, che l’abbia fatto perchè nel frattempo ha dovuto prendere atto, pur suo malgrado, che non ci sono le condizioni per lasciare la presidenza del Consiglio a favore di quella della Repubblica). E questo fa sperare che d’ora in avanti il suo tasso di decisionismo torni ad essere quello dei primi mesi.
Tuttavia, sarebbe un errore da matita blu perdere il senso delle proporzioni e giudicare i dieci mesi e rotti di governo Draghi senza considerare i punti di partenza – a cominciare dalla crisi irreversibile del sistema politico e dei partiti che lo formano – e quindi non arrivando alla conclusione che questa esperienza deve andare avanti fino al termine della legislatura e che sarà bene creare le condizioni – per esempio approvando una legge elettorale proporzionale – perchè l’ex presidente della Bce resti una risorsa imprescindibile ai fini della guida del Paese anche dopo le elezioni del 2023. Ed è un errore sia se si valuta Draghi e il suo governo in senso assoluto, ma a maggior ragione se lo si confronta con ciò che lo precedeva o, peggio, con il buco nero nel quale saremmo finiti se l’ex banchiere centrale non si fosse reso disponibile. Ma gli italiani, o meglio la grande maggioranza di loro, non sembrano essere cascati in questa trappola valutativa. Viceversa, ci sono finiti dentro con tutte le scarpe i “raccontatori” della realtà.
Sono quelli – giornalisti, intellettuali, ricercatori, politici, sindacalisti – che in questi mesi, per esempio, hanno guardato e rappresentato più la parte vuota del bicchiere di chi non si è vaccinato per pregiudizio ideologico e in taluni casi partecipa o organizza la protesta per la (presunta) violazione della libertà che le regole sanitarie e comportamentali, green pass in testa, produrrebbero, piuttosto che la parte piena di chi si è disciplinatamente sottoposto alle vaccinazioni e ha rispettato i protocolli, perdendo di vista la proporzione che c’è tra questi due mondi. Così la minoranza (rumorosa) è magicamente apparsa preponderante, a discapito della vera maggioranza (silenziosa). Persino il Censis è apparso affetto da strabismo, quando nella sua ultima relazione annuale sullo stato del Paese – solitamente molto preziosa – ha dedicato la maggior parte delle sue attenzioni al rabbioso popolo no vax, dimenticandosi che sarebbe stato molto più interessante analizzare sociologicamente quel quasi 90% di italiani che ha stupito il mondo dando mostra di livelli di disciplina nemmeno lontanamente riscontrabili in popoli – tedeschi e austriaci, per dirne due a noi limitrofi – di solito considerati molto più ligi alle regole delle “cicale” del Belpaese.
Ma lo strabismo riguarda anche la visione di quanto succede nell’economia e nel mondo del lavoro. Sarà anche un rimbalzo proporzionale alla caduta del pil, quello che stiamo vivendo, ma è significativo il fatto che ben pochi, compresi coloro che hanno passati gli anni a sottovalutare il declino, avessero intravisto la traiettoria della crescita così come si è manifestata. Allo stesso modo, abbiamo passato mesi, specie l’anno scorso, a invocare il blocco dei licenziamenti (ottenendolo) senza accorgerci che si stava verificando un fenomeno nuovo, l’uscita volontaria dal lavoro senza averne uno alternativo, che oggi conta numeri ben più alti delle uscite dovute alle crisi aziendali. Un fenomeno che credevamo solo americano, e che invece ci siamo ritrovati a vivere senza avere sufficienti strumenti di analisi (così ne applichiamo qualcuno all’impronta, come l’idea che questo sia un “popolo di incazzati”, sbagliando clamorosamente). Altro esempio: ci siamo accorti solo ora della crisi demografica che invece pochi inascoltati esperti ci segnalano da anni. Con il risultato di aver sbagliato di brutto le scelte di welfare e, soprattutto, di aver montato un dibattito solo ideologico, del tutto sganciato dalla realtà vera, sull’immigrazione, unico antidoto alle conseguenze (gravi) prodotto dal fenomeno delle “culle vuote”.
Ebbene, lo stesso difetto di vista che non ci consente di consuntivare nel giusto modo il 2021 ci impedisce di avere la dovuta attenzione ai rischi che porta con sé il 2022. Per esempio, pensavamo di poter sbaraccare l’impianto che è stato alla base del piano vaccinale delle prime due dosi – tanto che sembrava persino essere stata trovata una nuova collocazione per il general Figliuolo – e ora siamo correndo contro il tempo per realizzare massicciamente le terze dosi. Come ha spiegato molto bene il professor Sergio Harari nell’ultima War Room dell’anno, non ci sono ancora le condizioni perchè la pandemia si possa considerare endemia, e dunque dobbiamo attrezzarci di conseguenza se non vogliamo finire come altri paesi europei che fino a ieri ci hanno invidiato. Allo stesso modo, coltivare l’illusione che basti il “rimbalzo” per sistemare i problemi strutturali della nostra economia rischia di farci commettere errori di valutazione che ci costeranno cari. Al di là del pil perduto l’anno scorso, è ancora molto grande il gap accumulato nell’ultimo quarto di secolo, sia dal lato della ricchezza nazionale che di quella pro-capite, rispetto a noi stessi e agli altri paesi competitor. Avremmo bisogno di stabilizzare un tasso di sviluppo annuo tra il 2% e il 3%, e ci siamo lontani proprio perchè non se ne discute e non si assume questo come obiettivo fondamentale. Parliamo molto, invece, di come la crescita presente e futura dovrà essere sostenibile, di come lo sviluppo dovrà essere di segno diverso da quello fin qui realizzato. Giusto – nella misura in cui non si confonda la sostenibilità con la decrescita (in)felice – ma prima di tutto ci vuole la crescita, perchè sia sostenibile.
Vi faccio grazia, in questo ultimo TerzaRepubblica dell’anno, dello strabismo – ma sarebbe meglio dire della cecità più totale e assoluta – della politica. Ne abbiamo parlato tanto, sia qui che nella War Room, e torneremo a farlo alla ripresa dopo la pausa natalizia, quando saremo prossimi all’appuntamento – che spero non si trasformi in una riffa, ma lo temo – del Quirinale. Per ora auguro affettuosamente a ciascuno di voi una buona fine e un miglior principio, e per noi tutti faccio voti che il 2022 sia (almeno) come il 2021. Auguri e arrivederci all’anno prossimo.