SE LA PARTITA DEL QUIRINALE
DIVENTA UN FATTORE DI STALLO
(E CI SIAMO VICINISSIMI)
L’ITALIA RISCHIA DI RISPROFONDARE
di Enrico Cisnetto
Anche a sforzarsi, in giro non s’intravede un briciolo di consapevolezza dei rischi che stiamo correndo. Non nel mondo politico, vuoi perchè è il principale generatore dei pericoli cui ci stiamo esponendo, vuoi perchè in esso i neuroni sono ormai merce rara. Ma c’è incoscienza anche nel mondo istituzionale, dove più d’uno deve aver letto ma non capito Alexis de Tocqueville laddove nel suo monumentale “Democrazia in America”, a proposito del moderno patriottismo, scrive “gli uomini che vivono nelle democrazie amano il loro paese nello stesso modo in cui amano sé stessi, e trasferiscono le abitudini della loro vanità privata nella vanità nazionale”. Così come dilaga l’inconsapevolezza nei media e tra gli intellettuali che animano il dibattito (si fa per dire) pubblico.
Insomma, mentre il mondo ci sottopone a stress test sempre nuovi, e tutti maledettamente complicati – dalla ciclica recrudescenza della pandemia all’esplosione dei costi dell’energia che fa sballare i conti di milioni di imprese e di intere filiere produttive, mettendone a rischio la tenuta – l’Italia si è letteralmente fermata, ormai già da novembre, in attesa che si celebri il rito della nomina del presidente della Repubblica. Un atteggiamento scriteriato in sé, ma che risulta ancora più grave se si guarda alla piega che ha preso la vicenda quirinalizia.
Avevamo celebrato in molti, e io tra questi, la scelta di chiudere le due esperienze di governo scaturite dalle elezioni del 2018 – ugualmente fallimentari, non fosse per il tratto comune del medesimo presidente del Consiglio – a favore di un esecutivo di unità nazionale guidato dalla personalità maggiormente rappresentativa di cui il Paese potesse disporre. E i primi risultati ottenuti dal governo Draghi – su tre fronti: lotta alla pandemia, rilancio economico, nuova centralità in Europa e persino oltre – capaci persino di ravvivare il fuoco spento della fiducia nel futuro, confermavano pienamente quella soddisfazione. La conseguenza avrebbe dovuto essere assicurare al Paese continuità e stabilità. Continuità a quell’attività di governo, che invece ha cominciato a mostrare un preoccupante rallentamento proprio quando (casualmente?) nell’autunno scorso è iniziata la corsa al Colle. E stabilità da privilegiare nelle scelte per il Quirinale (e conseguentemente per il governo). E invece ci si è infilati in un maledetto cul de sac, senza tenere minimamente conto dei rischi cui il Paese viene esposto.
La cosa più grave è che, per come si sono messe le cose, l’asset Draghi ne esce penalizzato. Comunque vada a finire. Supponiamo che Draghi sia il successore di Mattarella. Intanto, è altamente improbabile che gli sia resa accessibile la corsia privilegiata delle prime tre votazioni, quelle con il quorum dei 2/3 dei 1009 (321 senatori, 630 deputati, 58 delegati regionali) chiamati ad eleggere il Capo dello Stato. Perchè se anche i leader dei partiti dovessero accordarsi sul suo nome il ventre molle del Parlamento, fatto di centinaia di grandi elettori “cani sciolti” terrorizzati dall’idea di chiudere anticipatamente la gratificante (sul piano economico e dello status) esperienza, si ribellerebbe e nel segreto dell’urna ridimensionerebbe il significato della sua nomina, facendola più assomigliare a quella di Leone (52% dei consensi alla 23ma votazione) che a quella di Cossiga e Ciampi (gli unici eletti entro le prime tre chiamate) o di Pertini (il più votato dei 12 Presidenti, con oltre l’83% dei consensi). Non è cosa di poco conto, perchè la differenza – certo destinata a stemperarsi con il passare del tempo, ma che all’inizio sarebbe rilevante, soprattutto rispetto al peso specifico che il nuovo inquilino del Quirinale avrebbe nel contesto internazionale – è quella che intercorre tra chi viene scelto e chi chiede di essere scelto.
Inoltre, a Draghi sarebbe inevitabilmente imputata la responsabilità della fase di stallo che la sua ascesa al Colle provocherebbe sul fronte dell’esecutivo. Via lui da palazzo Chigi, infatti, si aprirebbe una crisi politica, e non solo di governo, che ci porterebbe o alle elezioni anticipate o ad un lungo periodo di scontri ed estenuanti trattative. Per cui il Paese sarebbe comunque bloccato, o dalla campagna elettorale e dai tempi lunghi del dopo elezioni, o dalla gestione prolungata della crisi. Ed è follia pura pensare, come molti resoconti giornalistici di queste ore tendono a far credere, che i leader politici che ci ritroviamo siano in grado di accompagnare la nomina di Draghi al Quirinale con una preventiva soluzione del problema che essa aprirebbe, definendo subito il presidente del Consiglio che gli deve succedere (e già qui si apre una bagarre infinita), come pure l’assetto e il programma di governo. Dunque, al di là del perdere l’ex presidente della Bce alla guida del governo e dell’interruzione della continuità, è il caos che seguirebbe alla nomina di Draghi al Quirinale che dovrebbe indurre i fan della sua ascesa al Colle, e lui stesso, ad una riflessione.
Purtroppo, però, se anche Draghi non sostituisse Mattarella, ci sarebbero comunque conseguenze di quel che è accaduto fin qui e di quello che sta succedendo. La circostanza più grave, che va assolutamente scongiurata, è che il nome di Draghi venga speso nella competizione quirinalizia senza risultare eletto. L’appannamento della sua immagine che ne seguirebbe, e che – conoscendolo – potrebbe anche indurlo alle dimissioni, sarebbe una vera iattura, a tutto danno della credibilità dell’Italia sui mercati e in Europa. Se invece il nome di Draghi, per scelta sua o dei partiti, fosse tolto per tempo dalla mischia, si pagherebbe sempre un prezzo rilevante, ma di gran lunga inferiore a quello prodotto dall’altra circostanza. In questo caso Draghi, indebolito, dovrebbe avere la pazienza di rinegoziare il patto di governo, scrivendo un programma concentrato soprattutto su due punti: un piano Covid per passare dalla pandemia all’endemia (diciamo secondo lo schema spagnolo, non quello inglese), con maggiore normalità per i vaccinati e invece più durezza con i no-vax, e la realizzazione delle riforme e degli investimenti infrastrutturali previsti dal Pnrr (sono 102 gli obiettivi da perseguire nel corso di quest’anno).
Poi dovrebbe mettere mano alla lista dei ministri, cambiando quelli tecnici che si sono dimostrati fin qui non all’altezza e accettando gli avvicendamenti che gli proporranno i partiti. In tutti i casi si perderà un sacco di tempo, specie se alla scelta di lasciare dov’è l’attuale presidente del Consiglio non dovesse corrispondere quella di impegnare Mattarella per un bis, ma quella ben più impegnativa, per complessità e tempi, di ricercare un nome condiviso. Il quale nome, al momento in cui scrivo questa newsletter (sera di venerdì 21 gennaio, quando mancano 60 ore alla prima “chiama”), è di là da venire. Si dirà: ma è sempre stato così. Sì e no. L’incertezza, generata da un intenso lavorio sotto il pelo dell’acqua, è sempre una caratteristica del voto per il Capo dello Stato. Ma credo che mai come questa volta le forze politiche – che un tempo disponevano di veri king maker ed erano in grado di organizzare, non di subire, i franchi tiratori – si siano ridotte all’ultimo senza nessuno che abbia il bandolo della matassa in mano. A questo proposito vi voglio raccontare un fatto. Mattarella fu eletto il 31 gennaio 2015 al quarto scrutinio. Personalmente, ricevetti l’informazione riservata che si era trovato l’accordo su quel nome – inatteso, e quindi fino a quel momento fuori dai pronostici e dalle indiscrezioni della stampa – la sera del 5 gennaio. Ero allo stadio Olimpico per assistere a Lazio-Sampdoria (ahimè persa dai blucerchiati per 3-0) e una persona vicinissima al Presidente uscente, mi mise a parte della trama politica che aveva partorito quella soluzione: mancavano 24 giorni alla prima votazione e 26 dalla votazione che elesse l’allora membro della Corte Costituzionale. Oggi non è che mi manchi la “soffiata” giusta, è che non c’è nulla da “soffiare”.
La speranza è che questo vuoto pneumatico induca ad andare sull’unica scelta che assicura continuità, il bis di Mattarella. Per farlo non c’è alcun bisogno, come si farnetica, di andargli a chiedere anticipatamente la disponibilità – si è troppo esposto sul diniego, e lo ha fatto con sincerità, non strumentalmente, per potergli strappare un sì preventivo – ma basterà mettersi d’accordo e votarlo. Potete star certi che di fronte alla nomina, avvenuta pur suo malgrado, un uomo delle istituzioni come lui non si tirerà indietro. Poi, in nome di quello stesso codice istituzionale che lo indurrebbe ad accettare la nomina, sono sicuro che Mattarella rassegnerebbe le sue dimissioni una volta svolte le elezioni nella primavera del 2023 e formato un Parlamento non solo diverso per effetto delle scelte degli elettori, ma per via del fatto che una legge – a mio giudizio pessima, pur sempre entrata in vigore – avrà strutturalmente modificato la composizione di Camera e Senato, riducendo di circa un terzo la platea di quei grandi elettori che gli avevano chiesto il bis.
Il Covid che richiede un nuovo paradigma comportamentale, la ripresa economica che sta frenando (Bankitalia ha ridotto a +3,8% la previsione di crescita per il 2022, e temo non sarà l’unica riduzione di stima), il Pnrr da attuare, la spesa corrente che cresce troppo e gonfia ulteriormente il debito, l’inflazione da domare e la politica monetaria che è destinata ad essere meno espansiva, il patto di stabilità europeo da rinegoziare, un conflitto armato alle porte che interseca le forniture di gas e il costo dell’energia: ci stiamo giocando le terga, e l’elezione del Capo dello Stato non può essere un fattore di rischio aggiuntivo. Perchè ce le saremmo giocate.