IL CARCERE DEI NUMERI E DELLE MISERIE
Il carcere delle parole e delle tante intenzioni, ma opere ben poche, se non quelle del redigere rapporti di morti sopravvenute e utopie tutte a venire. Nonostante le dimensioni di una disumanità ormai divenuta regola, di un moltiplicarsi tragico di suicidi, di autolesionismi, di miserie umane così profondamente deliranti, colonne sgangherate di esseri perduti, senza più inizio né fine, senza più una professione di fede, neppure quella della strada. Oggi rimangono in quelle celle, file male intruppate di uomini privi di lingua, di simboli, di segni, soprattutto di memoria da tradurre e rielaborare. Del carcere si parla per distanziare un fastidio pressante, non per rendere giustizia a chi è stato offeso né a chi l’offesa l’ha recata. Se ne parla per rendere nebulosa e poco chiara ogni analisi, per nascondere l’ingiustizia di una giustizia che tocca tutti, ma in cui il messaggio trasmesso impedisce di intervenire. La realtà che deborda da una prigione è riconducibile all’umiliazione che produce il delitto, ogni delitto nella sua inaccettabilità. È proprio questa irrazionalità che ingenera pericolose disattenzioni, a tal punto da ritenere il recluso qualcosa di lontano, estraneo, pericoloso, qualcosa di non ben definito. Ecco allora che ingiustizia, violenza, illegalità, divengono eventi critici da sopportare senza tante crisi di coscienza. Dimenticando che stiamo parlando di persone, di pezzi di noi stessi scivolati all’indietro. Ma oggi che il carcere non rappresenta più uno zoo umano, ma un contenitore di numeri e di miserie, a che prò riproporre le armi della sola repressione. A che prò rifiutare una realtà infarcita di membra piegate e piagate. A che prò, proprio ora, che il lamento non è più un grido di guerra. Forse siamo preda di una visione che ci obbliga a rifiutare la realtà che c’è. O forse siamo addirittura dei bugiardi incalliti, e ciò ci obbliga a raccontare una realtà che non c’è. È vero, il detenuto non è la vittima, infatti le vittime sono senz’altro altri, feriti, offesi, scomparsi, ma il detenuto è persona che sconta la propria pena, che vorrebbe riparare, se posto nella condizione di poterlo fare. Coloro che hanno fatto del male, hanno soltanto una via da percorrere per ritornare a essere uomini nuovi, una via che non è soltanto quella dei venti o trent’anni di carcere da scontare, ma quella della ricerca di azioni nuove per tentare di rimediare e quindi accorciare le distanze. A ben pensarci, se io riconosco il diritto alle regole da rispettare, quel diritto a sua volta disciplina i rapporti con l’altro, e implica il riconoscimento di tutte le persone, fin’anche del detenuto. Forse è proprio questo che si vuole cancellare, affinchè il carcere debba essere inteso un involucro chiuso alle persone, alle idee, ai cambiamenti, così premeditatamente chiuso e imbullonato al pregiudizio, che persino la pietà è divenuta un sentimento buonista.
Il carcere delle parole e delle tante intenzioni, ma opere ben poche, se non quelle del redigere rapporti di morti sopravvenute e utopie tutte a venire. Nonostante le dimensioni di una disumanità ormai divenuta regola, di un moltiplicarsi tragico di suicidi, di autolesionismi, di miserie umane così profondamente deliranti, colonne sgangherate di esseri perduti, senza più inizio né fine, senza più una professione di fede, neppure quella della strada. Oggi rimangono in quelle celle, file male intruppate di uomini privi di lingua, di simboli, di segni, soprattutto di memoria da tradurre e rielaborare. Del carcere si parla per distanziare un fastidio pressante, non per rendere giustizia a chi è stato offeso né a chi l’offesa l’ha recata. Se ne parla per rendere nebulosa e poco chiara ogni analisi, per nascondere l’ingiustizia di una giustizia che tocca tutti, ma in cui il messaggio trasmesso impedisce di intervenire. La realtà che deborda da una prigione è riconducibile all’umiliazione che produce il delitto, ogni delitto nella sua inaccettabilità. È proprio questa irrazionalità che ingenera pericolose disattenzioni, a tal punto da ritenere il recluso qualcosa di lontano, estraneo, pericoloso, qualcosa di non ben definito. Ecco allora che ingiustizia, violenza, illegalità, divengono eventi critici da sopportare senza tante crisi di coscienza. Dimenticando che stiamo parlando di persone, di pezzi di noi stessi scivolati all’indietro. Ma oggi che il carcere non rappresenta più uno zoo umano, ma un contenitore di numeri e di miserie, a che prò riproporre le armi della sola repressione. A che prò rifiutare una realtà infarcita di membra piegate e piagate. A che prò, proprio ora, che il lamento non è più un grido di guerra. Forse siamo preda di una visione che ci obbliga a rifiutare la realtà che c’è. O forse siamo addirittura dei bugiardi incalliti, e ciò ci obbliga a raccontare una realtà che non c’è. È vero, il detenuto non è la vittima, infatti le vittime sono senz’altro altri, feriti, offesi, scomparsi, ma il detenuto è persona che sconta la propria pena, che vorrebbe riparare, se posto nella condizione di poterlo fare. Coloro che hanno fatto del male, hanno soltanto una via da percorrere per ritornare a essere uomini nuovi, una via che non è soltanto quella dei venti o trent’anni di carcere da scontare, ma quella della ricerca di azioni nuove per tentare di rimediare e quindi accorciare le distanze. A ben pensarci, se io riconosco il diritto alle regole da rispettare, quel diritto a sua volta disciplina i rapporti con l’altro, e implica il riconoscimento di tutte le persone, fin’anche del detenuto. Forse è proprio questo che si vuole cancellare, affinchè il carcere debba essere inteso un involucro chiuso alle persone, alle idee, ai cambiamenti, così premeditatamente chiuso e imbullonato al pregiudizio, che persino la pietà è divenuta un sentimento buonista.